Come i bambini che quando perdono vogliono cambiare le regole del gioco, così Fratelli d’Italia vuole cambiare il sistema dei ballottaggi delle elezioni comunali. È certo che il centrodestra ha perso le comunali, mentre non si può dire che abbia vinto il centrosinistra, vista la variegata, multiforme, articolata composizione degli schieramenti delle comunali. Basti pensare al numero delle liste: 20 a Firenze; 26 liste a Bari, per citare i due comuni più grandi. E si conferma una differenza tra il voto delle città e il voto dei comuni della provincia. Al primo turno delle comunali hanno votato il 63% degli elettori, meno 5% rispetto alle precedenti elezioni; comunque molti di più dei votanti delle europee. Segno dell’interesse diverso che ogni elezione ha, ma che gli “analisti” tendono a mettere sullo stesso piano e a dargli sempre un significato generale, come se ogni volta si votasse per il parlamento. A questo malvezzo concorrono poi anche le tv con i ripetuti sondaggi che finiscono per creare nelle formazioni politiche una costante “sindrome da elezione”, l’idea di una campagna elettorale permanente così che i politicanti si concentrano sui prossimi risultati elettorali, perdendo di vista le esigenze e le prospettive a medio e lungo periodo del Paese.

Ora in questo dilagare di liste e candidati rimane il dato del secondo turno delle comunali in cui sempre vanno a votare meno persone del primo turno: questa volta il 48%, che è anche il dato di partecipazione alle europee: per la prima volta dal 1946 (elezioni politiche ed europee) il numero dei non votanti è superiore a quello dei votanti, con il risultato che i partiti e le liste sono assolute minoranze: il primo partito (Fratelli d’Italia) rappresenta il 13,5% degli elettori, il secondo partito (PD) rappresenta l’11,3%. E si noti che la “Giorgia” che aveva chiesto il plebiscito sul suo nome, chiude con la sconfitta alle comunali dei capoluoghi e la perdita alle europee di quasi 600mila voti rispetto alle politiche del 2022. E Giorgia può anche alzare la voce e prendersela con i “caminetti” e con la “sinistra”, ma rimane il fatto che era chiaro anche durante le elezioni europee: finché il suo partito non si libera dei nostalgici e si sposta verso posizioni di destra moderata, non otterrà udienza a livello europeo, per quanto le destre abbiano ottenuto dei maggiori consensi rispetto al passato. Se le riforme elettorali o istituzionali si vedono non sul lungo periodo, ma sul vantaggio politico immediato di parte, come è accaduto in questi anni e come si sta ripetendo con la proposta del premierato o con l’abolizione dei ballottaggi alle comunali, si aumenta la sfiducia dei cittadini nella politica.

Quando la democrazia (con le sue istituzioni) perde la “riverenza universale”, ovvero rispetto, ossequio e considerazione della maggioranza dei cittadini, non regge a lungo, diventa una democrazia slombata, fiacca, debole, snervata, preda di avventure autocratiche, o di dittature, magari anche, legali. Non può andare avanti una situazione per cui si considerano inutili, perdenti e autolesionisti coloro che non vanno a votare. Per le elezioni dei consigli comunali, regionali, del parlamento nazionale ed europeo, sembra che sia molto meglio per i partiti e le liste, che i cittadini non vadano a votare. Da anni non fanno nulla per risalire la china e recuperare il consenso dei cittadini italiani. Ma attenti, che una volta rotta la solidarietà e il patto che lega i cittadini alle istituzioni, siamo tutti più esposti a poteri non democratici. E la colpa non è di chi non va a votare, ma di chi non opera per recuperare fiducia, rispetto, considerazione per la politica, per la democrazia e le sue istituzioni. Quindi bisogna recuperare al più presto il rapporto con i cittadini, anche alle elezioni. E occorre una legge che preveda che i seggi siano direttamente proporzionali alla quantità dei votanti, per cui in queste elezioni europee, visto il numero dei votanti, in totale si eleggono 37 deputati invece di 76: e allora vedrete che qualcuno si sveglia per conquistare nuovi consensi e presentare anche liste decenti.

E laddove nelle elezioni regionali o comunali non votano il “50% + uno” degli aventi diritto, allora il Presidente o il Sindaco sono eletti dal Consiglio regionale o comunale, che si compongono in base al numero dei votanti. Se vota il 50% degli elettori, il Consiglio regionale della Lombardia è composto da 40 consiglieri e non da 80. E sfido chiunque a dimostrarmi che i Sindaci, i Presidenti e gli assessori eletti dai Consigli comunali o regionali, come era nel passato, erano meno bravi di quelli eletti direttamente: i risultati della azione amministrativa e legislativa sono lì a dimostrare che si faceva meglio quando si stava peggio. Che senso democratico ha, avere una legge elettorale per la Regione Lombardia che prevede che, qualunque sia la partecipazione al voto, solo con un voto in più del secondo “sbanchi”? In qualsiasi assemblea elettiva, democratica a un ruolo maggiore dell’esecutivo deve fare da contrappeso un potere di controllo e di indirizzo adeguato dell’assemblea rappresentativa. Schiacciare per esempio il ruolo del consiglio Comunale e la sua stessa composizione sulla figura del Sindaco è un grave errore democratico e porta a fenomeni di cesarismo, incompatibili con una giusta distribuzione dei poteri di una democrazia. E lo stesso limite del secondo mandato, sulla base dei fatti, porta a uno scarico di responsabilità, a un minore impegno, e di fatto premia una amministrazione o una legislatura concentrata, se va bene, sul presente, senza alcuna spinta programmatoria o senza aspirazioni a progettare il futuro. “La colpa, caro Bruto, non sta nelle stelle, ma in noi stessi”, William Shakespeare, Giulio Cesare.