“Ho colpito Giulia con diversi colpi di coltello. Sentivo la lama affondare nella carne, ma non mi sono fermato. Le ho dato, non so, una decina, dodici, tredici colpi al collo, alle spalle, sulla testa, sulla faccia e poi sulle braccia. Mi ricordo che era rivolta all’insù verso di me. Si proteggeva con le braccia dove la stavo colpendo. L’ultima coltellata che le ho dato era sull’occhio”. Certo, sì. Che notizia! Ma non è tutto qui. C’è lo scotch per farla tacere, ci sono le corde e la spugna bagnata. E c’è che Filippo Turetta in auto aveva portato con sé anche dei regali per Giulia: “Una scimmietta di peluche, una lampada piccolina, un libretto d’illustrazione per bambini intitolato ‘I mostri si lavano i denti’”. Ma Giulia non li accettò.

L’inchiesta da fare nel giornalismo

Cari colleghi della più bella professione del mondo, quella che ci ha catturato da ragazzi per il fascino di un foglio bianco da riempire ogni mattina con la realtà. Carissimi giornalisti d’inchiesta e di scoop, vogliate considerare un’umilissima proposta: perché non facciamo una bella inchiesta su di noi? Perché non ci chiediamo a cosa davvero deve mirare, oggi, la preziosissima e intoccabile libertà di informazione? Forse questo nostro guardarci allo specchio sarebbe utile a tutti. Perché si parla giustamente di lotta alla fake news, del deep web e dell’hate speech, insomma, giusto per uscire dagli inglesismi, si parla del tremendo virus della viralità. Ma qui il problema non sono solo le notizie false: sono le notizie vere. Più esattamente, il limite che dovrebbe darci non solo la deontologia ma il senso del rispetto degli altri.

Il problema sono anche le notizie vere…

Dopo 30 anni di inviati embedded nelle procure della Repubblica, con connessi libri di memorie, talk show e info-tainment. Dopo aver pubblicato verbali su verbali e aver distrutto le vite e le reputazioni di legioni di potenti anche se innocenti di tutto. Dopo aver raccontato nel dettaglio le straordinarie verità delle olgettine a casa di Berlusconi e i retroscena di interesse planetario sui parenti stretti di Matteo Renzi… Dopo questo curriculum di trentennali oscenità, ora che abbiamo intervistato l’imprenditore che ha scaricato un uomo ferito come un utensile rotto, permettendogli pure di dire che la colpa è stata sua, e dopo che abbiamo reso noti i macabri dettagli del delitto Cecchettin… ci sentiamo orgogliosi di noi stessi? Abbiamo arricchito la società, abbiamo onorato il mai abbastanza celebrato articolo 21?

Chi sono i lettori?

Allora, la facciamo un’inchiesta su di noi? Magari, a testimoniare portiamo altri colleghi, quelli che in guerra vanno davvero. Loro possono fare la pubblica accusa, perché sembrano avere una pulsione contraria a quella più diffusa: limitarsi. La raccontano ad Antonella Ciervo in un piccolo libro, “Con i piedi in guerra”, dove è riepilogato l’ABC dello stile, del pudore e del ritegno di fronte al dolore altrui. Lo sgomento della free lance Nancy Porsia di fronte alla necessità di “intervistare una madre cui lo Stato islamico ha crocefisso il figlio”. O quello di Domenico Quirico, che vuole schivare “il rischio-Disneyland di giornalisti in cerca di emozioni forti”. “Il livello di sofferenza era tale che ho temuto di non farcela”, dice Asmae Dachan. E Nello Scavo: il dolore che vedi deve darti la forza, ma devi anche evitare che ti paralizzi, perché “sennò racconti la tua guerra e non quella degli altri”. Facciamola, questa inchiesta sulle nostre inchieste. Forse potremmo scoprire che se i verbali sono secretati ci sono delle ragioni. E che il pubblico cui parlano le penne dell’orrore non è un pubblico di lettori. È più quello che rallenta quando nell’altra corsia ci sono dei cadaveri, è più quello che filma con il cellulare le atrocità prima di ancora di averle capite.

Sergio Talamo

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