Quella che si è consumata tra Stato e Regioni in materia di fine vita – nel corso degli ultimi anni – è stata una faticosa battaglia in punta di diritto, da cui a uscire sconfitta sembrerebbe soprattutto la politica, complice una rinuncia a decidere forse più opportunistica che ideologica. Curiosamente proprio l’approvazione di una proposta di legge controversa e contestata quale è la cosiddetta autonomia differenziata potrebbe offrire una chance imprevista al Parlamento per riappropriarsi di una funzione di guida – politica, appunto – nella costruzione di un sistema di diritti civili adeguato ai tempi e alle relative esigenze sociali.

Andiamo con ordine. Il governo, nel tempo, si è pressoché limitato a respingere le iniziative legislative delle Regioni sui temi etici in premessa, senza che a ciò sia conseguita un’assunzione di responsabilità, in sede parlamentare, da parte delle forze che – di volta in volta – lo sostenevano. Quando in Friuli fu approvata la legge 4/2015 (prima in Italia a definire il biotestamento), su impulso di Beppino Englaro e dell’associazione da lui fondata in ricordo della figlia Eluana, la presidenza del Consiglio impugnò il provvedimento e la Consulta dichiarò l’illegittimità della legge per violazione degli articoli 3 (principio di uguaglianza) e 117 (competenze di Stato e Regioni) della Costituzione.

Da allora il contesto – almeno sotto il profilo giuridico – è cambiato piuttosto rapidamente, visto che appena quattro anni dopo la stessa Consulta – con la sentenza 242 del 2019 (sul caso Cappato) – apriva addirittura alla legittimità del suicidio assistito, subordinandola all’esperimento di determinate cautele. Da quel momento in poi il punto di confronto, e di scontro, si è spostato sul piano concreto dell’accesso possibile alle procedure di morte assistita: accesso molto complesso visto che ad oggi le persone che ne hanno fruito si contano letteralmente sulle dita di una mano. La giurisprudenza costituzionale ha certamente fatto molto, ma non può comunque colmare un vuoto normativo che tuttora paralizza le attività delle aziende sanitarie coinvolte, e che costringe molti malati terminali a promuovere azioni giudiziarie per vedersi riconosciuto il diritto al suicidio, ove ne ricorrano i presupposti.

Appunto in questo vuoto le Regioni (o loro singoli rappresentanti) hanno provato e continuano a provare ad esercitare un ruolo supplente, con percorsi e strumenti di diversa natura. In Emilia Romagna, ad esempio, è stata la Giunta regionale a disciplinare le modalità di accesso al fine vita, attraverso la definizione di specifiche linee guida. Da parte sua il governo ha impugnato le relative delibere al Tar. In altre Regioni (tra cui Campania, Toscana e Lombardia) si è scelta invece la più tradizionale via legislativa, e diverse sono le proposte che attendono di essere discusse, mentre in Veneto il Consiglio si è già espresso su un testo che ha mancato l’approvazione per un solo voto. Va peraltro rilevato come la genesi di queste proposte di legge sia stata spesso di matrice popolare, presupponendo pertanto una mobilitazione pubblica e la raccolta di migliaia di firme di sottoscrittori. Non che ve ne fosse bisogno, ma questo testimonia una volta di più come il tema sia estremamente e trasversalmente sentito dall’opinione pubblica.

Proprio per questa ragione – tornando all’incipit dell’articolo – la riforma dell’autonomia differenziata, a prescindere da dettagli tecnici che andranno evidentemente approfonditi, pone una riflessione politica piuttosto chiara in capo a governo e Parlamento. In un contesto in cui le iniziative sulle questioni cosiddette etiche sono andate via via forzatamente regionalizzandosi in ragione di una totale assenza di risposte dalle istituzioni centrali, la scelta di regionalizzare molti e rilevanti ambiti decisionali – comunque si valuti l’autonomia differenziata – apre una prospettiva interessante. Con l’approvazione di questo testo le Regioni acquistano infatti una funzione, e con essa anche una rilevanza percepita, che evidentemente non avevano prima. Diventa quindi più difficile arginarne legittime aspirazioni di autonomia su contesti di cosi forte impatto e, nondimeno, rivendicazione sociale. L’alternativa, ove si ritenesse lo scenario di un fine vita “a macchia di leopardo” una via impraticabile e politicamente e sostanzialmente, ancor prima che giuridicamente, non potrebbe che essere l’approvazione in tempi ragionevoli di una legge nazionale che riesca a sanare un vulnus ormai storico e creare – perché no – un clima di confronto costruttivo tra le forze politiche di cui si avverte, non da oggi, l’opportunità istituzionale.

Gabriele Molinari

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