Ieri a Madrid, l’Unione Europea nella persona del suo Alto rappresentante Josep Borrell ha annunciato il lancio della nuova Scuola diplomatica europea, progetto ambizioso per rafforzare l’influenza dell’Europa in un mondo che cambia. La circostanza sottintende la necessità di pensare alla formazione e al capitale umano in modo strategico, come agenti del nostro soft power. Lo stesso ragionamento vale in modo speculare ed esponenziale per nostre relazioni con l’Africa e per il futuro del Piano Mattei italiano. L’influenza dell’Africa sulla scena mondiale è in crescita.

L’adesione del continente a forum come il G20 e i BRICS sono segni della ritrovata importanza geopolitica dell’Africa. La raffica di ospiti di altissimo livello ne fanno da suggello. Il segretario di Stato americano Antony Blinken e quello del tesoro al Tesoro Janet Yellen, nonché i ministri degli Esteri cinese e russo Qin Gang e Sergei Lavrov, hanno tutti visitato l’Africa durante lo scorso anno. Così come il nostro Sergio Mattarella qualche settimana fa. In tempi meno politically correct, si sarebbe chiamata corsa all’Africa.

Le ragioni sono palesi. In meno di sette anni, il 20% degli 8,55 miliardi di abitanti del mondo saranno africani. Più del 55% della popolazione del continente avrà meno di 20 anni e il 75% avrà meno di 35 anni. Entro il 2030, l’Africa potrebbe avere più persone da impiegare della Cina o dell’India. Dovranno essere creati circa 20 milioni di posti di lavoro ogni anno, con implicazioni enormi, dalla mobilità alla ricerca di standard di vita più elevati. Se potenziata attraverso l’istruzione, le competenze e la formazione professionale, questa forza lavoro può trasformarsi da un peso demografico che preme ai confini dell’Europa ad un volano di crescita e sviluppo.

Non giriamoci intorno: per l’Europa e l’Italia al suo interno, queste cifre rappresentano il temuto “tsunami” umano, il cui riflesso pavloviano è: aiutiamoli a casa loro. Ma dovremmo sviluppare la lungimiranza di resistere ai nostri impulsi, guardare oltre i calendari elettorali e capire che con questi numeri, puntare solo all’esternalizzazione delle frontiere equivale a voler svuotare l’oceano con un cucchiaino.

Inoltre, questi numeri raccontano anche un’altra storia. Secondo il Fondo monetario internazionale, l’area di libero scambio continentale africana incrementerà il commercio intra-africano di oltre il 50% entro il 2025, aumenterà il reddito fino a 450 miliardi di dollari entro il 2035 e solleverà 30 milioni di africani dalla povertà estrema. Potrebbe creare entro il 2030 un mercato di 1,77 miliardi di persone con un PIL combinato di oltre 3,4 trilioni di dollari. Dare ai giovani professionisti africani l’opportunità di sviluppare competenze non è dunque solo un investimento nel loro futuro, ma nel nostro. Opportunismo illuminato, lo chiamava Tocqueville. Tuttavia, in questo ambito l’Europa e l’Italia sono in ritardo rispetto alla Cina e agli Stati Uniti.

La Young African Leaders Initiative di questi ultimi ha un bilancio annuale di quasi 60 milioni di euro. La Cina si è impegnata a formare ogni anno 1.000 africani di alto livello. Noi europei non abbiamo nulla di simile. Al contrario, continuiamo a guardare al dito dell’immigrazione e del controllo dei confini e non alla luna dello scambio, crescita e benevolenza reciproca che una maggiore attenzione alla formazione genererebbe.

Ho scritto su queste pagine qualche giorno fa del programma dei giovani leader africani che abbiamo pilotato all’Istituto universitario europeo di Firenze negli ultimi tre anni, l’unico finanziato dalla Commissione europea. Una delle lezioni che ne abbiamo tratto è proprio questa: mettere a fattore competenze delle giovani promesse africane con equilibrio e quella straordinaria risorsa italiana che diamo per scontata, l’empatia, è qualcosa di cui ci gioviamo noi in primis.

Le università italiane, spesso coadiuvate dalle nostre istituzioni, hanno intessuto una fitta rete di relazioni e partenariati con l’Africa. Dobbiamo costruire su questa base per fare di più e meglio. L’Europa e l’Italia devono allocare più risorse per aiutare le università africane a migliorare i propri programmi di studio, coinvolgere il settore privato per sviluppare programmi di ricerca e sviluppo, formare insegnanti per contribuire a creare una forza lavoro più qualificata, promuovere occasioni di dialogo tra giovani leader europei e africani.

Fabrizio Tassinari

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