Classe 1969, Giulio Napolitano è professore ordinario di diritto amministrativo nell’Università degli Studi Roma Tre. Figlio dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (scomparso il 22 settembre dell’anno scorso), è autore di numerosi saggi sulla Pubblica amministrazione e ha fatto parte di varie commissioni di studio presso ministeri ed enti pubblici, in materia di riforma del settore pubblico e degli enti senza scopo di lucro. Con lui proseguiamo il nostro ciclo di interviste riformiste.

Chi sono i riformisti?
«Nella storia della sinistra e in particolare del movimento socialista il termine ha un significato preciso per indicare chi mira a modifiche graduali ma profonde dell’economia, della società e delle istituzioni per coniugare sviluppo, libertà e giustizia sociale».

Perché il riformismo fatica ad attecchire in Italia?
«Ha faticato per la contrapposizione tra socialisti e comunisti e per il vincolo ideologico che troppo a lungo ha condizionato il PCI nonostante tanta buona pratica riformista a livello locale e in Parlamento. Quando poi il PCI arrivò alla decisiva prova del compromesso storico e della solidarietà nazionale, grazie a una coraggiosa intuizione di Berlinguer, fu però proprio quest’ultimo a farlo ritirare precipitosamente per difendere un’identità pre-politica e rifiutare l’approdo al socialismo europeo. Se a ciò si aggiunge la fine rovinosa del Partito socialista italiano, nonostante il contributo positivo a tante innovative riforme economiche e sociali dagli anni Sessanta in poi, si spiega la debolezza della tradizione riformista in Italia».

E nell’ultimo trentennio?
«Con Amato-Ciampi nel 1992-93, il primo governo Prodi nel 1996-1998 e poi Renzi-Gentiloni, il centrosinistra ha dato all’Italia delle buone stagioni riformiste, purtroppo non sufficientemente lunghe».

Quanto pesa il rendimento della PA sui problemi del paese?
«L’inefficienza della PA ovviamente pesa, ma imputare ogni colpa alla burocrazia è troppo facile. È tutto il sistema paese ad essere fragile e fonte di complicazioni, basti pensare all’instabilità politica, alla confusione normativa, all’intreccio delle competenze, alla moltiplicazione dei controlli, ai ritardi e agli usi strumentali della tutela giurisdizionale. Di tutto ciò l’amministrazione è vittima prima ancora di essere causa».

Qual è il bilancio delle riforme della PA degli ultimi 30 anni?
«Dagli anni ’90 in poi riforme utili e importanti (pubblico impiego, servizi pubblici, privatizzazioni, liberalizzazioni e semplificazioni, autorità indipendenti di regolazione) sono state introdotte. Oggi la PA è molto più moderna e non mancano le punte di eccellenza. Ma l’attuazione delle riforme richiederebbe una cura costante che invece è spesso mancata anche a causa dei frequenti cambi di governo e delle improprie interferenze della politica. Manca da tempo una visione forte: le ultime le hanno avute Brunetta ai tempi di Berlusconi e il governo Renzi ma avevano il vizio di essere riforme concepite più contro l’amministrazione che con l’amministrazione».

Che cosa resta da fare?
«Molto, a cominciare dal ridefinire incentivi e disincentivi di chi opera nel pubblico nella logica del risultato. In questa prospettiva, una recente sentenza della Corte costituzionale ha invitato governo e Parlamento a una riforma organica della responsabilità erariale. È un’occasione da cogliere al più presto».

Come valuta la riforma del Titolo V?
«È stata preziosa per togliere tante inutili incrostazioni dello Stato centralista. Allo stesso tempo, il Titolo V contiene dei veri e propri errori, a cominciare da alcune materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni che invece dovrebbero spettare esclusivamente allo Stato: assurdo che tali evidenti errori non siano stati corretti in questi anni».

E adesso c’è la legge sull’autonomia differenziata…
«È una legge scritta male, a cominciare da tutti quelle excusatio non petita (“nel rispetto…”, “nel rispetto altresì…”) dell’articolo 1. Ma lascerei da parte le valutazioni estetiche. Nella sostanza, è una semplice legge di procedura, peraltro non necessaria ai fini dell’attuazione dell’autonomia differenziata. Ma ha due vizi di fondo».

Quali?
«Consente l’attribuzione di competenze alle Regioni anche in quelle materie (ad esempio lotta alle pandemie, infrastrutture nazionali) nelle quali è ormai pacifico che l’intervento dello Stato (e della Ue) è l’unico efficiente».

E il secondo vizio?
«Poggia tutto sulla mera volontà delle Regioni di accaparrarsi le competenze, mentre le Regioni dovrebbero rivendicare poteri soltanto nelle aree dove dimostrino effettivamente, con numeri ed esperienze concrete, di saper fare meglio».

Come valuta il dibattito pubblico sulla riforma?
«Mi sembra surreale. Il centrosinistra ha introdotto in Costituzione il principio ma fa finta di dimenticarlo e si guarda bene dal rivendicarne i meriti, che pure potenzialmente ci sono. Anzi, demonizza il federalismo competitivo che – a piccole dosi e dentro una salda cornice di federalismo collaborativo e di solidarietà – può innescare dinamiche innovative virtuose. Peraltro, già oggi le Regioni sono ogni giorno in competizione tra loro e i cittadini votano con i piedi alla ricerca di lavoro o di cure migliori».

E il centrodestra?
«A volte mi viene il dubbio che il centrodestra non voglia davvero l’autonomia differenziata. Poteva concederla à la carte a legislazione vigente e invece si è imbarcata nell’approvazione di una legge generale di procedura. Anche le Regioni del Nord, a parole le più interessate a maggiori competenze, se davvero le volessero non le pretenderebbero in più di venti materie contemporaneamente, creando un ingorgo istituzionale e spaventando tutti, ma procederebbero in modo graduale, iniziando dalle due/tre che più hanno a cuore e dimostrando alla prova dei fatti che la cosa può funzionare».

Sanità e scuola: per farle funzionare basta chiedere l’aumento illimitato delle risorse pubbliche? Il «tassa e spendi» sembra la ricetta eterna della sinistra…
«Ha ragione. Le risorse naturalmente sono importanti, ma tanto più con il debito pubblico dell’Italia bisognerebbe puntare maggiormente su innovazione e tecnologie e attuare il prima possibile i progetti finanziati nell’ambito del Pnrr. E poi i soldi pubblici vanno spesi meglio. Con il calo demografico non ha senso reclutare sempre più insegnanti, sarebbe meglio pagare di più quelli che ci sono a cominciare dai migliori».

Crescita, lavoro, impresa, progresso: queste parole chiave sono sparite dal discorso pubblico del centrosinistra.
«Eppure senza sviluppo e crescita l’Italia non potrà mai sperare di riequilibrare i propri conti e di ritrovare risorse per modernizzare il suo sistema di welfare. Il centrosinistra dovrebbe essere il primo ad avere a cuore il rilancio della competitività e dell’innovazione nell’industria e nelle imprese italiane».

Si parla di riforme istituzionali da 40 anni ma arrivati al dunque tutto si arena. C’è un conservatorismo diffuso nel paese?
«A me pare che per uno strano paradosso il conservatorismo sia di chiunque, in un dato momento storico, si trovi all’opposizione, come se il miglioramento del nostro sistema istituzionale dovesse essere una preoccupazione soltanto di chi si trova pro-tempore al governo».

È necessaria una riforma per rafforzare il governo?
«La debolezza e il frequente ricambio dei governi sono uno dei maggiori problemi del sistema istituzionale italiano, che tra l’altro ci danneggia molto in Europa e nel mondo. Giusto quindi introdurre correttivi in Costituzione per rafforzare la stabilità dei governi».

La riforma del premierato del centrodestra va in questa direzione?
«All’inedito premierato all’italiana preferisco lo sperimentato cancellierato tedesco con la sfiducia costruttiva e la posizione rafforzata del capo dell’esecutivo. Senza introdurre sconvolgimenti e amputare le prerogative del presidente della Repubblica e del Parlamento, la stabilità dei governi ne uscirebbe molto rafforzata. Spetta invece a una nuova legge elettorale introdurre meccanismi maggioritari, doppi turni e ballottaggi, o soglie di sbarramento, per assicurare maggioranze parlamentari sufficientemente solide. Aggiungo che andrebbero affrontati uno a uno e con spirito costruttivo anche altri annosi problemi che ci trasciniamo da tempo, a cominciare dal bicameralismo perfetto».

Dove devono collocarsi oggi i riformisti?
«I riformisti devono continuare la loro battaglia nel principale partito del centrosinistra nel reciproco rispetto e dialogo con chi ha posizioni più radicali. Peraltro, alle ultime elezioni europee, i cittadini hanno premiato i candidati riformisti ed europeisti. Per il resto non sono un amante né tanto meno un esperto di alchimie politiche».

Non c’è proprio spazio per un terzo polo?
«Non so se c’è spazio (la storia recente sembra dire di no) ma personalmente vedrei con favore se nascesse (o si staccasse dall’attuale centrodestra) una forza moderata, cattolica e liberaldemocratica e di salde convinzioni europeiste con cui il centrosinistra dovrebbe ricercare un’alleanza su adeguate basi programmatiche».

Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient