L’ultima inchiesta della magistratura arriva, come spesso capita, puntuale come un orologio svizzero. E così il governatore della Liguria Giovanni Toti finisce in manette, ai domiciliari, a trena giorni dalle elezioni. Capita. La richiesta di arresto è stata firmata dal Pm nel dicembre 2023, indagini chiuse. L’ordinanza che lo costringe ai domiciliari arriva a maggio. Sei mesi dopo. Un ragionamento banale. Se Toti è parte attiva di “un disegno criminoso” come si legge nell’ordinanza ed è così pericoloso da rendere necessari i domiciliari, come mai sono passati sei mesi? In sostanza, questa magistratura attenta e puntuale pare che abbia lasciato a piede libero un criminale per sei mesi.

Sorprende. E si è sorpreso pure il ministro della Giustizia Nordio visto che le indagini risalgono a fatti, ammesso che siano avvenuti veramente, del 2020. “Non conosco gli atti e da garantista penso sempre alla presunzione di innocenza. Mi è sembrato di capire che si tratta però di fatti che risalgono ad alcuni anni fa e che l’inchiesta non è nata oggi ma tempo addietro – ha detto il Guardasigilli – Ho esercitato 40 anni da pubblico ministero e raramente ho chiesto provvedimenti di tutela cautelare dopo anni di indagini”. Ha rispolverato l’abito garantista, da troppo nell’armadio, in disuso. Finalmente direi. Puntuale come la magistratura è arrivata pure la forca del Pd: «Parole sorprendenti, sembrano quelle della difesa, non del titolare di via Arenula».

Sorprendenti perché garantiste o perché sono state spese per un politico che non fa parte del cerchio magico di Elly? No, perché la Schlein quando si è trattato dei suoi, vedi Decaro ed Emiliano, ha sventolato la bandiera del garantismo così forte da slogarsi un polso. E ora? Toti si deve dimettere? “Secondo me sì. Se confermate, le accuse disegnano un quadro di gravità inaudita. Sono una garantista ma quando le accuse sono così gravi c’è l’opportunità politica di fare un passo indietro, per rispetto delle istituzioni” ha detto la segretaria Pd in salsa squisitamente grillina.

Vedete, è proprio quel “ma” che messo accanto al principio del garantismo rende quella affermazione priva di significato. La annulla. Sono garantista ma… Ma niente. Il garantismo è tutt’altra cosa: non c’è il “ma”, c’è il “nonostante”.  Aspetto la fine del processo, le prove, i giudici nonostante le accuse e lo sputtanamento mediatico e i titoli urlati. Garantismo vuol dire proteggere le garanzie proprio quando ha parlato solo l’accusa, quando ci muoviamo ancora nel terreno delle ipotesi.

Garantismo vuol dire aspettare. Aspettare senza giudicare e senza sputare sentenze al veleno, vuol dire aspettare i tre gradi di giudizio. E comunque, si deve essere garantisti pure dopo: si può commettere un errore, non si è un errore. Ma tutto questo pare essere evaporato nel Pd. Elly continua a professarsi garantista, meglio sarebbe forse evitare di utilizzare questa parola e continuare a dare giudizi a destra e a sinistra (e a Noi Moderati). Meglio il giustizialismo di marca che il garantismo contraffatto.

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.