Pochissimi scrittori hanno generato dal loro cognome un aggettivo che adoperiamo continuamente, nella vita di tutti i giorni, come “kafkiano”. “Era una situazione kafkiana”, raccontiamo agli amici di una festa non riuscita o di un viaggio accidentato.

Spesso lo diciamo per indicare un’angoscia labirintica o anche uno stato di estrema solitudine in un mondo sconosciuto. Anche senza averne letto una riga, siamo tutti debitori a Franz Kafka, di cui il 3 giugno ricorre il centenario della morte, il genio che seppe mettere su carta in una maniera molto più complessa di quello che comunemente si è portati a pensare: appunto l’angoscia novecentesca accompagnata, se così si può dire, dall’assenza di salvezza e di riscatto.

Però bisogna leggere Kafka fuori dai consueti stereotipi. O meglio, bisogna saper intendere che «Kafka non era kafkiano», come scrive Giorgio Fontana in questo splendido piccolo libro, “Kafka – Un mondo di verità” (Sellerio, pp.283), una guida esemplare per capire il grande scrittore praghese.

Potrà sorprendere, ma Franz Kafka era un uomo buono, gentile, anche bello a suo modo mentre noi ce lo figuriamo d’istinto come pronto a tramutarsi nell’immondo insetto come l’impiegato Gregor Samsa del suo racconto più famoso (“La metamorfosi”), o con il muso della scimmia di “Una relazione all’accademia” o come l’antipatico Josef K. del “Processo”.

Sempre istintivamente pensiamo al Kafka pauroso e finanche sadico come nel racconto forse più terribile, “Nella colonia penale”: «La regola trasgredita viene scritta con l’erpice sul corpo del condannato».

Roba da non dormirci la notte. Certo, l’angoscia viene trasmessa al lettore come la febbre al mercurio del termometro. Ma la scrittura di Kafka è bellissima, raffinata, geniale: questo ci spiega Fontana nel suo libro.

Non aveva tutti i torti Milan Kundera quando invitava a leggere Kafka «come si legge un qualunque romanzo». Però è parimenti vero ciò che scrisse Walter Benjamin: «Kafka ha rotto i ponti con una prosa esclusivamente narrativa», perché nella sua scrittura «ci sono in gioco forze abissali – scrive Fontana – che lui prende molto sul serio, e così dovremmo fare anche noi».

La forza del “Processo” è già tutta nell’incipit: «K. viveva in uno Stato di diritto, ovunque regnava la pace, tutte le leggi erano in vigore, chi poteva osare di piombare così in casa sua?». Non lo sapremo mai, né K. né noi lettori. E l’angoscia si mescola alla bellezza della scrittura. Perché dunque non rileggere questo gigante del Novecento lasciandosi andare al piacere di una prosa esatta come poche ve ne furono ma che contiene un “di più” che ci colpisce e c’incanta?