Bizzarra sorte, quella di Giovanni Toti. Adesso, con interpretazioni bislacche e maliziose dei suoi ricorsi, prima quello sulla custodia cautelare e poi l’atro dopo il rigetto della gip alla richiesta di scarcerazione, lo vogliono trasformare in un “pentito”. Nei due sensi in cui viene interpretato il termine nella nostra cultura più modesta. La prima, quella morale. Par di sentirlo canticchiare allo Zecchino d’oro: “Sulla codina del gatto lo smalto rosso e blu non lo metto più”. E poi invocare il perdono della mamma. L’altro, più inquietante, è il riferimento ai collaboratori di giustizia, soprattutto nei processi di mafia. Che in genere sono i peggiori di tutti, assassini e traditori. Sicuramente mai “pentiti”. O in rari casi.

La conversione

In che cosa consisterebbe questa nuova “conversione” del presidente della Regione Liguria? In alcune frasi del ricorso presentato dall’avvocato Stefano Savi al tribunale del riesame, dopo che la giudice Paola Faggioni aveva stabilito manette domestiche eterne, ritenendo un mese di carcerazione un periodo abbastanza breve perché non ci si dovesse lamentare. E che comunque, visto come funzionava il “sistema” Liguria, il presidente della Regione avrebbe sicuramente ripetuto a ogni tornata elettorale lo stesso reato. La promessa del “non lo faccio più”, mamma perdonami, era contenuta anche del primo ricorso. E la giudice, allineandosi come a volte succede al pensiero dell’altra parte processuale, cioè la procura, non ne aveva tenuto nessun conto.

La frase incriminata

Io ho sempre agito correttamente per il bene e l’interesse pubblico, aveva scritto Toti, firmando anche di proprio pugno il ricorso del difensore, e ve l’ho anche dimostrato nel corso del lungo interrogatorio. Ma se voi insistete a dire che esiste un conflitto tra la mia attività di pubblico amministratore e il fatto che il mio movimento politico riceva contributi nelle scadenze elettorali, va bene, non lo faccio più. Vi accontento. Ecco la frase incriminata, quella che ha indotto alcuni quotidiani di procura a considerare Toti come un soldato arreso. “Anche laddove fossero individuabili o individuate eventuali occasioni per la richiesta di finanziamenti, ovvero situazioni di stallo o di conflitto da risolvere nell’ottica dell’interesse pubblico, è da escludere che Giovanni Toti possa nuovamente, con immutato approccio, interessarsi di tali vicende o semplicemente, chiedere a privati dei finanziamenti”.

La giudice Faggioni, dopo averla letta, deve averne colto la leggerezza ironica, tanto è che l’ha ignorata. Ha insistito invece sulla oggettiva pericolosità del “sistema”, ricordando ben quattro tornate elettorali in cui sarebbe stato commesso il reato. Si parte dalle amministrative di Savona dell’ottobre 2021 e poi quelle di Genova del giugno 2022, fino alle politiche nazionali del 25 settembre dello stesso anno e infine ancora le amministrative, questa volta di Ventimiglia e Sarzana del maggio 2023. Il recidivo ha potuto bellamente agire indisturbato senza che nessuno lo fermasse. Una bella omissione di atti di ufficio da parte della polizia giudiziaria e degli stessi uomini della procura, no? E si è dovuti arrivare a ridosso delle elezioni europee di quest’anno perché qualcuno si decidesse, con l’operazione del 7 maggio, a fermare questo meccanismo corruttivo così grave.

Gli altri problemi

Ma non è questo il solo problema di questa inchiesta. C’è anche quello dei tempi di prescrizione, già sollevato dall’ex capo del sindacato delle toghe Luca Palamara, fin dai rimi giorni. Prima di tutto perché è facile, anche senza indizi, contestare l’aggravante mafiosa che, ne siamo certi, evaporerà molto presto, per attenuare le garanzie per gli indagati. Proprio nei giorni scorsi è stato interrogato dai pm l’ex sindacalista Venanzio Maurici, colui che sarebbe il trait d’union con una cosca mafiosa siciliana. Le “prove” consisterebbero in una parentela con un cognato che l’indagato non vede da vent’anni e con la consegna di un curriculum per un eventuale posto di lavoro per il compagno della figlia. Oltre a tutto Maurici, che ha solo l’obbligo di firma come misura cautelare, rivendica orgogliosamente il suo “essere comunista” e “non avere mai votato, né avere intenzione di farlo per il futuro, Giovanni Toti”.

E l’altro elemento preoccupante è dovuto al fatto che, fin dalla lettura dei primi capi d’imputazione con la contestazione agli indagati della violazione di un reato elettorale, si parlava di campagne elettorali antecedenti alla scadenza delle regionali del 20 e 21 settembre 2020, e i tre anni (due più un’altra metà del termine in caso di successivo atto processuale) previsti dalla norma sono ampiamente stati superati. Nel frattempo Giovanni Toti, anche con l’uso del grimaldello dell’antimafia (anche se a lui l’aggravante non viene contestata) è stato controllato passo, passo e intercettato giorno e notte. I suoi comportamenti sono avvenuti tutti alla luce del sole, come ricostruiti dai due ricorsi presentati dal suo difensore Stefano Savi. Gli incontri, registrati nell’agenda della sua segretaria, si sono svolti in luoghi frequentati e alla presenza di terzi. Il suo cellulare non è stato mai abbandonato all’esterno o spento durante i suoi colloqui. E le visite alla barca di Aldo Spinelli erano dovute al fatto che l’imprenditore usava lo yacht come un ufficio. Oltre a tutto, a partire dal 2 novembre 2021 il governatore della Liguria era seguito dalla scorta. Tutto talmente chiaro, da consentire un’ultima graffiata. State tranquilli, signori con la toga, perché “i comportamenti futuri saranno certamente e facilmente adeguati alla luce del presente procedimento”. Sulla codina del gatto lo smalto rosso e blu non lo metto più.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.