E se capitasse di proposito? Il blackout di Microsoft di fine luglio ha messo in evidenza le fragilità della rete interconnessa globale. Si è trattato di un incidente, che ha sottolineato come l’affidamento a un’infrastruttura monolitica, con numerosi single points of failure (Spof) possa avere conseguenze catastrofiche. Ma cosa potrebbe accadere se un evento simile fosse progettato? Parlare di difesa comune europea significa aver chiaro, prima da tutto, da cosa dobbiamo difenderci. Posto il fatto che – ma teniamo le dita incrociate – ci siamo lasciati alle spalle gli inferni delle due guerre mondiali, è necessario osservare il rischio bellico con gli occhi dell’attualità. Secondo la Nato, il 90% delle minacce al nostro apparato di sicurezza giunge da soggetti privati.

Fatta eccezione per l’Ucraina, che comunque non è poca cosa, a nessuno interessa avere un’Europa rasa al suolo com’era quella del 1945. Il rischio si traduce quindi in una cyberwar combattuta da corsari del web, al soldo di nemici tutto sommato facili da identificare. È una guerra asimmetrica, di cui non si contano morti e feriti, non c’è spargimento di sangue e tanto meno città bombardate, ma il cui bollettino sarebbe comunque drammatico. Dalle sale operatorie di un ospedale ai dispositivi di sicurezza in una torre di controllo di un aeroporto, passando banalmente per le auto elettriche o una linea metropolitana. Sappiamo quanto la vita reale sia dipendente da quella online. Un attacco a quest’ultima – non un incidente fortuito come nel caso Microsoft – provocherebbe disastri tali e quali a una guerra d’altri tempi.

Quindi è lecito chiederci se siamo pronti a difenderci. Siamo in grado di realizzare una “Fortezza Europa” digitale inespugnabile? Quali regole di ingaggio ci siamo dati per poter prevenire, ma anche rispondere a un attacco cyber? Finora, il dibattito politico sulla difesa comune sta cercando di risolvere i principi fondamentali su cui si reggerebbe un esercito europeo. Chi comanderebbe le forze armate congiunte? Che uniforme vestirebbe? In che lingua impartirebbe gli ordini? Gli eserciti sono uno dei pilastri portanti dell’identità e della sovranità di una nazione. Ci si rende conto che questi non sono dettagli in occasione delle parate del 2 giugno a Roma, del 14 luglio a Parigi e del Trooping the colors a Londra.

Da qui la perplessità e i silenzi di molti governi nazionali tutte le volte che qualche leader europeo torna sul tema. Marine Le Pen, Salvini e Orban non sono i soli a essersi opposti alla proposta di Macron. Quello che, per uno scherzo della storia, proprio da un precedente inquilino dell’Eliseo, Charles de Gaulle, era già stato affossato, oggi resta un piano di facile comunicazione, ma sempre poco fattibile. C’è il rischio infatti che si crei una fotocopia della Nato. Fatta eccezione per Austria, Cipro, Irlanda, Malta e Svezia (che però ha chiesto di aderire), i membri dell’Unione europea fanno anche parte dell’Alleanza atlantica. Questo vuol dire che ogni singolo governo nazionale dovrebbe calcolare un secondo budget per la difesa comune, dopo quello già oneroso per la Nato. Il fatto poi che gli Usa dispongano, sui nostri territori, di basi missilistiche e apparati difensivi non facilita le cose. In questo caso, per assurdo, si dovrebbe auspicare nella vittoria di Trump, di cui sono note le intenzioni di smantellare le ridondanze militari Usa sparse un po’ ovunque nel mondo. Il vuoto lasciato da loro sarebbe propizio per i nostri eserciti.

Differente è la questione vista dalla prospettiva delle imprese. Nel suo complesso, la filiera della difesa Ue ha raggiunto un fatturato di 70 miliardi di euro nel 2023, contro i 250 miliardi degli Usa. I nostri sistemi di sicurezza sono presenti in Medio Oriente, Asia e ovviamente sono in dotazione alle forze armate nazionali europee. Siamo eccellenti nell’aviospazio, nei mezzi corazzati, nelle armi da fuoco personali e altri equipaggiamenti. L’antico mestiere delle armi ci ha portati a essere un’eccellenza industriale nel settore. Tutto questo lascia però ancora in sospeso su come rispondere a quel 90% di minacce che non si possono neutralizzare con un carro armato o un sottomarino. La Permanent structured cooperation (Pesco) e i Cyber rapid response teams sono due progetti dell’Unione europea che fanno da embrione alla cyberdifesa.

Von der Leyen ha anche parlato di uno European Air Shield and cyber defence. Il blackout di Microsoft dev’essere un campanello d’allarme. A differenza di un conflitto simmetrico, che nasce da tensioni diplomatiche irrisolte, un cyber attack è improvviso. Adesso sei online, tra un secondo sei off. Se la vera guerra si combatte sui fronti inconsistenti del web, vuol dire che il prossimo Commissario Ue alla Difesa – nuova e necessaria figura della Commissione che verrà – dovrà essere più un ingegnere informatico che un esperto militare. A fare la differenza sarà il combinato disposto tra l’intuizione preventiva delle agenzie di intelligence e la capacità di reazione dei nostri apparati.

Abbiamo bisogno di soldati nerd, magari meno marziali, per quanto affascinanti, rispetto a quelli che sfilano sui Fori Imperiali, ma più smanettoni, in grado di far luce negli oscuri angoli del mondo digitale. Alla stregua di una qualsiasi impresa anche la difesa europea dovrà implementare una serie di backup e sistemi di ridondanza. La creazione di reti resilienti richiede investimenti significativi in infrastrutture e tecnologie avanzate di failover. Questo processo è complesso e costoso, ma indispensabile per garantire la continuità operativa e mitigare i rischi associati agli Spof.

Antonio Picasso

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