I Think-Tank sono degli oggetti misteriosi. Letteralmente sono dei serbatoi di pensiero. Praticamente sono istituti, centri di studio legati alle istituzioni o a fondazioni, agenzie di Intelligence e università. Ma il funzionamento è quello studiato dal gruppo delle “teste d’uovo”, immaginato dagli intellettuali che orbitavano intorno al presidente John Kennedy per capire e anticipare il mondo intero affinché la superpotenza americana fosse in grado di capire bene prima di agire. I Think-Tank sono riforniti da fonti aperte o chiuse (cioè dallo spionaggio) e oggi mettono i due vecchi candidati in corsa per la Casa Bianca Donald Trump e Joe Biden di fronte a un mondo totalmente imprevedibile. È il mondo che mette insieme alla Russia la più vasta coalizione di paesi e regimi che in comune hanno soltanto un desiderio: far crollare il sistema guidato dagli Stati Uniti, umiliare e – se possibile – distruggere questo grande paese i cui popoli, Stati e lobby sono per loro natura distanti dal centro del potere in Washington DC, in cui si svolge da sempre la più spietata e gara per il potere, da sempre. Il potere del Congresso e del Senato, dei governatori e dei singoli Congressi, dell’economia e della scienza.

Ma il centro nevralgico del sistema nervoso americano non abita nella politica estera. La politica estera è l’altrove, è un luogo estraneo dove si combinano affari, si commercia in materie prime e che ha sempre bisogno di sapere che gli Stati Uniti tengono in vita un sistema militare capace in ogni momento di affrontare tutti gli altri sistemi militari e batterli. Così è stato finora. A partire dal comando militare e idealista di Thomas Woodrow Wilson, il presidente che portò un esercito in Europa per vincere la Grande Guerra che avrebbe concluso tutte le guerre (e che invece preparò le condizioni per la Seconda guerra mondiale). Poi venne l’America del grande isolazionismo e infine quella dello sbarco in Normandia, del D-Day del giugno 1944, di cui si è appena celebrato l’ottantesimo anniversario in Francia, lasciando fuori la Russia con cui di fatto è in corso uno stato di pre-guerra.

Ma prima, con la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, abbiamo avuto un’allucinazione collettiva, specialmente in America: quella della fine della “Guerra Fredda”. La guerra termonucleare scongiurata per sempre, la vittoria almeno morale delle democrazie liberali o comunque schierate con l’Occidente a guida americana che generò un libro geniale – ma totalmente erroneo per uno stato di allucinazione – di Francis Fukuyama, che annunciò la fine stessa dalla storia per mancanza di competitori e che chiuse – con gioiosa precipitazione – le porte del tempio di Giano, Dio della guerra, come fece Cesare Augusto. Ma fu l’errore di un uomo che credeva nella bontà dell’homo faber, dedito alla costruzione anziché alla distruzione, guidato dal cieco ottimismo che contaminò tutto l’Occidente e anche l’Oriente.

Ricordo come un sogno l’epoca in cui a Mosca si andava sulla via Arbat a comprare quadri giocosamente astratti ed era pieno di bancarelle che svendevano le uniformi dell’Armata Rossa, chili di medaglie e nastri, falci e martelli dorati, colbacchi del KGB e poi quintali di dossier cartacei degli archivi segreti che si compravano a chili. Questo riguardava la Russia di Boris Yeltsin e non gli Stati Uniti, ma gli Usa guardavano all’ex nemico vinto come i Romani guardavano le rovine di Cartagine. E sbagliavano. Sbagliarono tutti a quell’epoca in cui sembrava che i russi avessero una voglia smodata di Occidente e di Coca Cola, di McDonald’s e di essere finalmente anche loro come tutti americani, con un sogno americano russo, con canzoni russe ma americane che erano comunque musica rock metallara e ubriaca di vodka. Errore, di nuovo. I russi erano storditi, affascinati, umiliati, attratti, sedotti, furiosi perché sanno che l’anima russa è oscura agli occidentali in quanto contiene l’idea del Cuore di cane di cui scriveva Bulgakov. E gli americani hanno assorbito milioni di russi con anima russa che sono diventati americani come i cinesi americani.

Nel 1996 intavolai una stentata conversazione con un ex militare russo immigrato a New York, nella bolgia di Coney Island. Sedevamo a un tavolo di ferro fra stridori dei luna park e i bar pieni di ballerine della lap dance. Parlava un inglese stento e gutturale, divorato da un malumore quasi offensivo. La conversazione si arenava continuamente e così posi la più idiota delle domande: “So, you are from Russia?”. Mi guardò sbalordito e indignato, immagazzinò aria e poi disse: “No. I’m not from Russia. I come from Soviet Union”. Non dalla Russia ma dall’Unione Sovietica, morta da otto anni. Ecco un uomo putiniano, penso oggi e non allora perché Putin era ancora noto. Nella seconda parte della “Fine della Storia” di Fukuyama c’è un capitolo che riassumeva la grande illusione: “Nessun barbaro alle porte”. La cittadella delle democrazie non vedeva tartari dai suoi spalti. Non c’era stato l’11 settembre, la guerra con l’Iraq che fu il più grande errore dell’amministrazione Bush e poi la fallimentare rotta americana dall’Afghanistan, la landa infernale che era stata protagonista del Great Game tra le potenze dell’Ottocento e che era stato già abbandonato dai sovietici dopo l’ultima guerra e l’ultima sconfitta dell’Armata Rossa, quando l’Occidente armò i mujaheddin contro i russi, disfatti e sconfitti.

I cittadini americani oggi ascoltano le news con la consueta disattenzione per quanto riguarda l’estero. Non sono più prevalentemente bianchi e certo non si sentono più figli dell’Europa. L’isolazionismo è la posizione politica che li porta istintivamente dalla parte di Trump: “Rendiamo l’America di nuovo grande” non è uno slogan guerresco, ma anzi la decontaminazione dalle guerre altrui. Il disinteresse e poi un certo risentimento nei confronti dell’Ucraina è cominciato quando i consumatori americani hanno constatato che le armi spedite a Kyiv fanno aumentare il prezzo delle uova al supermercato. Era già successo quando l’America di Roosevelt, negli anni 1940-41, spediva costosi convogli all’Inghilterra per rifornire il popolo inglese di armi, munizioni, cibo medicinali e carburanti ma senza avere alcuna voglia di combattere i tedeschi. Alla fine fu Hitler a dichiarare guerra all’America.

In Europa dimentichiamo che gli Stati Uniti nel 1950 – dopo la Seconda guerra mondiale – furono costretti a combattere una guerra rovinosa contro la Corea del Nord, proprio quella che Putin ha visitato due giorni fa sottoscrivendo una impegnativa alleanza militare. Quella guerra costrinse a tornare a combattere migliaia di americani che avevano appena finito di combattere nel Pacifico e ci fu un famoso film oggi dimenticato, “I ponti di Toko-ri”, in cui un esausto tenente Brubaker (nella vita civile un commesso viaggiatore) deve lasciare per la seconda volta moglie e figli per andare a sfidare la contraerea cinese in Corea. Gli americani fino al 1917 non hanno voluto ficcare il naso nelle vicende europee e gli europei consideravano loro dei simpatici megalomani. L’America è stata e resta – non solo gli Stati Uniti, ma anche grandi paesi come l’Argentina e il Brasile – un’enorme spugna porosa e grande quanto basta per ospitare milioni di persone in fuga dal loro passato e dalla povertà, disposti a vivere un confronto brutale con una storia e una natura che non fanno sconti a nessuno. La storia del sogno americano è verissima, come è vera quella del diritto a cercarsi ognuno la sua strada per il benessere e la felicità senza essere invaso dal governo e dalla burocrazia.

Ma per esperienza gli emigrati americani vogliono far parte dello Stato la cui potenza militare è più potente di quella di tutte le altre potenze del mondo messe insieme. Ma questo principio, o desiderio automatico, oggi si scontra col fatto che sono molti i paesi che producono armi, come l’Iran, per non parlare della Cina. L’America ha sempre dalla sua Giappone e Australia, Canada e Nuova Zelanda, ma oggi non basta: il presidente Putin ha chiarito, negli ultimi discorsi di maggio e giugno, di considerare l’“asse dei resistenti contro l’Occidente” a guida russa come lo strumento di una vera rivoluzione che è chiamata a distruggere il primato americano, dei suoi alleati, dell’Occidente in generale e in particolare a distruggere l’arroganza degli europei che confessa apertamente di odiare e trovare ridicoli e nauseanti. Oggi i lavori e le discussioni dei Think-Tank americani riflettono la stessa sorpresa: la Russia ha ormai smesso di essere alleata dell’Occidente anche dove prima lo era stata, contro la minaccia nucleare iraniana e gli armamenti coreani. Ha scelto di far fronte con gli “Stati Canaglia”. Putin ha deciso di arruolare tutte le organizzazioni islamiche e terroristiche riprendendo la linea dell’ex Unione Sovietica quando aveva come bersaglio il colonialismo, abbandonando la linea antijihadista che aveva sempre mantenuto sul fronte ceceno. In compenso gli americani si vedono subissati da una pubblicità costosissima.

Finora gli americani non lo avevano considerato come il capo della “Spectre”, la malvagia organizzazione mondiale del male inventata da Ian Fleming per il suo James Bond, ma nelle ultime settimane i social sono stati invasi dai discorsi perentori filmati davanti a migliaia di uomini in uniformi da operetta grondanti nastri, cordoni d’oro, giacche sgargianti. Nella patria di tutti i supereroi il presidente russo sta diventando una specie di Joker che appare dai battenti di altissime porte d’oro zecchino, i cui cardini sono fatti ruotare da soldatini al passo dell’oca, per poi intraprendere la passeggiata a passo di bullo fino al leggio per pronunciare di fretta parole di scultorea banalità da applauso obbligatorio. Gli americani cominciano a non trovarlo più così divertente, perché giornali, catene televisive e social stanno mostrando il retroscena di questa teatralità così pacchiana e puerile: la guerra. La vera guerra che c’è e che richiama nella memoria americana la tragica e inaspettata guerra di Corea del 1950 – cinque anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale – una strage di commessi viaggiatori, agricoltori e piccoli borghesi americani quando l’America fu lasciata da sola a combattere su mandato delle Nazioni Unite. Trump ha capito qualcosa perché è stato lui a rendere possibile l’approvazione dei sessanta miliardi per difendere l’Ucraina.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.