Quella di mezza Milano allagata ad ogni acquazzone importante, sembra essere diventata una condizione ineluttabile, come se fosse qualcosa di fisiologico. È così?
«Ineluttabile mi sembra la parola giusta. Milano è cresciuta, volumetricamente ma non demograficamente, senza un progetto di prevenzione e difesa idrogeologica efficace, né tampoco un progetto ecosistemico. Gli allagamenti sono diventati un fenomeno fisiologico».

Il Lambro, il Seveso… si sa che avere corsi d’acqua che attraversano la città, e magari con percorsi interrati, determina un rischio, ma stiamo parlando di una situazione che esiste praticamente da sempre. Provvedimenti ne sono stati presi, soluzioni sono state tentate… cosa non funziona?
«Il Lambro, vivaddio, non lo hanno interrato. Per ora lo hanno solo confinato molto rigidamente. E le 80 traverse evitano la erosione ma aumentano la pericolosità idraulica, come dettava il Progetto Lambro della Provincia, anno 1986. Mai realizzato. Il Seveso fu interrato in varie fasi a partire da fine secolo XIX e inizio secolo XX. I suoi problemi, già noti alla fine del ‘600. All’inizio del ‘700, l’architetto-ingegnere camerale Dionigi Maria Ferrari e l’idrografo imperiale Giovanni Antonio Lecchi questionavano già se le massime piene del Seveso dovessero venire contenute a monte della città o bisognasse allargare l’espansione a valle. Gli episodi recenti sono tutti allagamenti dovuti a piene ordinarie. Sono proprio gli eventi ordinari destinati a diventare più frequenti e, in prospettiva, più gravosi».

C’è chi dice che le vasche di laminazione siano una soluzione già vecchia, inopportuna, perché causano problemi su un territorio densamente edificato.
«Anche se fossero realizzate davvero, la dimensione totale delle vasche non è in grado di difendere Milano da un evento catastrofico. Nei primi anni 2000 fu condotto l’unico serio progetto di difesa idraulica del dopoguerra, la galleria drenante Seveso-Lambro. Era stata anche finanziata dalla giunta Albertini con una settantina di milioni di euro. I successori decisero altrimenti. Solo l’allagamento del 2012 provocò circa 80 milioni di euro di danni, se non sbaglio».

Una scuola di pensiero dice che il problema sarebbe da ricercare nella velocità con cui l’acqua affluisce a valle e, dove il fiume è intubato, crea i danni. Dunque più che ragionare su quello che fa l’acqua a valle si dovrebbe ragionare sul come fare per rallentarne il deflusso a monte…
«Nella tombinatura di valle possono transitare al massimo 40 metri cubi d’acqua al secondo, 60 se il canale coperto sotto via Piave venisse mantenuto pulito e lucidato. In tal caso, c’è il pericolo che il Seveso tracimi in zona Venezia, anziché a Niguarda. A Niguarda, ormai, l’evento fa meno notizia. Le inondazioni periodiche che osserviamo oggi sono allagamenti, fastidiosi ma semplici allagamenti. Le massime piene del Seveso, a mio parere, sono state sempre sottostimate. Basti pensare che il torrente Bisagno di Genova – autore di memorabili alluvioni a causa del tombinamento progettato da Fantoli, ingegnere idraulico e Rettore del Politecnico di Milano – drena soli 90 chilometri quadrati di territorio. La sua massima piena è stimata oggi in 1000/1300 metri cubi al secondo. Il Seveso drena un bacino di più di 200 chilometri quadrati. Un evento classificabile come catastrofico, con una probabilità annua dell’uno per cento di verificarsi, non si mitiga con le sole casse di laminazione».

Di solito quando un problema di gestione urbana appare irrisolvibile, salta fuori qualche esempio virtuoso all’estero. In questo caso esistono città nella quali si sia riusciti ad evitare esondazioni e allagamenti? Sono esempi importabili?
«Non conosco casi al mondo simili a Milano in quanto a cocciutaggine nel rimuovere una questione così seria. Può chiedere una risposta a uno psicologo delle catastrofi. In tutti i paesi avanzati, si lavora per scoprire ed allargare i corsi d’acqua tombinati, da San Francisco a Los Angeles, Baltimora, Kalamazoo, Detroit, solo negli Stati Uniti. Un’operazione che viene chiamata “deculverting” o “daylighing”. A Milano hanno perfino coperto i canali navigabili (Navigli) e non hanno la minima intenzione di riaprirli. A mio modo di vedere, una iniziativa pianificata e integrata tra vasche di laminazione e scolmatori, soprattutto la galleria di nord-est, può essere efficace per contenere le piene ordinarie».

Poi c’è la polemica sulla capacità di scarico nelle vie cittadine. C’è davvero incuria, e quanto rimediarvi potrebbe davvero evitare di ritrovarsi con strade trasformate in guadi e stazioni della metropolitana allagate?
«Milano deve fare un monumento equestre all’Ingegnere Colombo, a capo dei servizi tecnici del Comune nella prima metà del XX secolo. Nel pianificare la nuova rete fognaria, anni ‘20-‘30, egli seguì una impostazione progettuale allora giudicata iper-precauzionale. È una rete a maglia che funziona come un “tampone idraulico”, distribuendo i rovesci di pioggia breve, molto localizzati, su tutti i rami della rete, ovvero su un territorio più ampio di quello colpito dal nubifragio. Una sorta di cassa di laminazione distribuita. Fu un’impostazione seguita anche nel primo dopoguerra, prima che esplodesse la Milano da bere. Se, invece, la rete fosse stata costruita con una semplice struttura ramificata, come accadde quasi sempre altrove—a meno di eccezioni come Berlino e in parte Bruxelles—le strade delle Aree C e B di Milano si allagherebbero mensilmente, quando non a cadenza settimanale nei periodi più piovosi.
La gravosità della crescita dei fastidiosi allagamenti ha nomi precisi: consumo di suolo, approssimazione progettuale, incompetenza urbanistica e idraulica. La sfida va affrontata con competenza scientifica e tecnica, senza tessere di partito e senza galloni politici».