Benjamin Netanyahu è stato un combattente come tanti israeliani e come suo fratello Yoni, ucciso nelle operazioni di Entebbe contro il commando tedesco-palestinese che aveva preso in ostaggio duecentocinquanta passeggeri di un Airbus francese partito da Tel Aviv. Ma Yoni è un eroe di Israele: Bibi no, e non lo sarà mai. E non perché non è morto giovane come l’altro in quell’impresa eroica, ma perché tutta la sua storia politica, tutta la sua esperienza pubblica e istituzionale, tutta la vicenda dei suoi rapporti con la società israeliana ne fanno una specie di corpo estraneo in Israele. È solo apparentemente un paradosso, questo: ma la realtà è che Netanyahu, giudicato il più oltranzista di tutti, è stato il meno israeliano di tutti.

Yitzhak Rabin era il generale che avrebbe ordinato di spezzare le braccia ai palestinesi che lanciavano pietre, e nessuna frase simile può essere addebitata a questo suo duraturo successore: eppure anche quello era un eroe già prima di essere assassinato, mentre il caparbio scalatore del Likud che prendeva il potere promettendo la sicurezza che i laburisti non avrebbero saputo assicurare è lo stesso che sei mesi fa doveva assistere all’incursione di tremila macellai che sventravano Israele, liberi di agire per ore.

Sbaglia gravemente l’osservatore occidentale che addebita a Netanyahu di condurre arbitrariamente, e contro una volontà maggioritaria in Israele, le operazioni militari a Gaza. Altrettanto gravemente sbaglia quando attribuisce a quelle scelte belliche (non sue, peraltro, ma del gabinetto di unità nazionale che le sostiene) il discredito che, non da oggi, lambisce la figura del primo ministro. In questa guerra Bibi era l’attrezzo disponibile, e non sostituibile, per mettere in salvo una nave bisognosa di cure immediate, ma senza nessun affidamento verso un capo comunemente sfiduciato per ragioni più profonde e risalenti. L’impreparazione israeliana sulla scena del Sabato Nero, con tanta parte delle forze armate tenute a presidiare i Territori, moltiplicava il dispetto di un’opinione pubblica già abbastanza contrariata da un leader che per disegno personale, non certo per l’interesse comune, commerciava il consenso con gli oltranzisti dei mitra distribuiti nei chioschi e si alleava, accreditandoli, con i forsennati che rivendicavano il diritto biblico di estirpare gli ulivi dei contadini palestinesi.

L’ipotesi dei processi giudiziari di cui si vagheggia in questi giorni, nel solito quadro dell’incolpazione collettiva che si scarica esemplarmente sulla testa di questo politico al tramonto, potrà forse eccitare il tono delle requisitorie anti-israeliane che si affidano al “genocidio” e alla “pulizia etnica” per giustificare la propria pretesa effettiva: e cioè non che Israele si astenesse dal difendersi in questo modo, ma che non si difendesse in nessun modo. Una pretesa che non si scontra con gli intendimenti di Netanyahu, ma con quelli di un popolo intero. Per il quale l’opposizione a Netanyahu, la contestazione delle sue iniziative, le proteste e le manifestazioni che ne reclamano la destituzione non passano nemmeno remotamente per una qualsiasi rinuncia a difendersi con tutta la forza necessaria da quelli che vogliono distruggere Israele.

I riservisti che il 7 ottobre, da ogni parte di Israele e da tutto il mondo, partivano per armarsi e combattere non dovevano aspettare le parole di guerra di Netanyahu. Quei ragazzi avrebbero combattuto e sarebbero morti per difendere il loro Paese e il loro futuro a prescindere da qualsiasi superfluo appello del primo ministro, che infatti non c’è stato. Ed è vero ciò che molti dicono in Israele, vale a dire che per Netanyahu la prosecuzione della guerra costituisce un modo per procrastinare l’appuntamento con responsabilità sinora schivate: ma è una verità che non toglie nemmeno un pizzico della convinzione comune, laggiù, circa la necessità vitale di chiudere i conti con gli autori e con i mandanti del 7 ottobre. Se Israele vincerà questa guerra, Netanyahu non ne sarà il vincitore. Lo sa lui e lo sa Israele. E che finisca o no imputato è del tutto indifferente.