Why the Germans do it better. Nell’agosto 2020 il commentatore britannico John Kampfner – attraverso la pubblicazione dello scritto sopracitato – elogiava la gestione tedesca della fase pandemica e il dinamismo della sua economia, mortificando invece il Regno Unito fresco di Brexit. Efficienza, ordine e stabilità interna, l’assillo dell’export come baricentro dell’attività diplomatica, e la leggendaria acribia nell’atteggiamento fiscale. In sostanza pochi avrebbero trovato le giuste argomentazioni per confutare la tesi apologetica del libro di Kampfner, pochi avrebbero puntato sulla caducità del modello Deutschland. Infallibile il metodo messo in pratica per confermarsi “sistema” anche nel pieno delle crisi geopolitiche e finanziarie. Almeno così supponeva il mondo, prima del 24 febbraio 2022, quando le truppe russe accerchiarono e oltrepassarono i confini ucraini.

Le debolezze

Oggi è possibile constatare come le qualità della pallida madre, invidiate dalle cancellerie europee ed elevate a equazione perfetta per garantire la prosperità di uno Stato, abbiano in realtà contribuito a svelarne le debolezze. Dalla recessione economica al carico burocratico; dalle delocalizzazioni all’incapacità di attrarre investitori stranieri, dalla necessità di sostenere il dispendioso welfare state alla tassazione soffocante, dalla radicalizzazione delle forze anti-sistema, soprattutto nei territori dell’ex DDR, alla crescente insofferenza verso la coalizione di governo (come attestano i risultati delle scorse elezioni europee), dalla perdita del gas russo a basso costo (nazionalizzazione dell’ex Gazprom Germania e forzosa rinuncia al Nord Stream 2) alla crisi del manifatturiero, dal fallimento della nuova Ostpolitik all’amorfa Zeitenwende lanciata da Olaf Scholz, per giungere alla discussa svolta verde che mette il paese alle dipendenze della Cina.

La crisi

Il gigante economico si dimena, intrappolato dalle catene che lui stesso ha meticolosamente forgiato. Indebolito dall’interscambio fuori controllo con Pechino, accecato dal mercantilismo spinto, di cameralistica origine e memoria.
Ed è inutile girarci attorno. L’elemento frenante che ha arrestato la locomotiva d’Europa è l’inettitudine nel plasmare una nuova Weltanschauung. Nella sua storia recente la classe dirigente tedesca ha scelto di alimentare la propria visione del mondo mediante la cooperazione economica dimenticando l’energia politica, fondamentale per la costruzione di un’identità forte e di una chiara postura su scala planetaria. Il Vecchio Continente riconosceva Berlino come suo centro economico, non politico. E ora? Dopo la recessione registrata nel 2023, e con una crescita del Pil reale dello 0,2%, cos’ha da offrire la Germania all’Europa? Non potendo più salire in cattedra per impartire ricette su come incentivare lo sviluppo di un paese e salvaguardare le rispettive finanze pubbliche, sotto quale veste intende riproporsi al mondo? Qui si consuma l’epocale crisi tedesca. Nella sua inconsistenza geostrategica e nel tramonto dell’ormai remoto romanticismo politico, mentre fuori visioni antitetiche tentano di modellare un nuovo Ordine mondiale, retto da nuovi equilibri e da nuovi protagonisti.

Le soluzioni

C’è però un interrogativo ancora più scomodo e impellente. Come recuperare credibilità e auctoritas dinanzi ai partner occidentali, avendo sostituito l’utilitaristica Ostpolitik (ben collaudata nel corso della storia nazionale dai governi Brandt, Kohl, Schröder, Merkel e da Steinmeier) con un’adesione cieca alle direttive provenienti da Washington? Magari, continuando a mantenere una posizione irriducibile contro Mosca e iniziando – a partire dal 2026 – a ospitare sul suolo teutonico missili da crociera SM-6, Tomahawk e nuove armi ipersoniche, come annunciato al margine del summit Nato. Magari aumentando la spesa militare. Al momento è sul banco di prova, per la felicità di Varsavia, longa manus dell’Alleanza in Europa, pedina strategica sul fronte orientale. Sarà interessante capire in quali forme la Germania programma e riformula il nuovo debutto sulla scena europea e internazionale. Ovviamente per tornare a contare dovrà convincersi, una volta per tutte, di non essere il male assoluto e liberarsi di alcuni spettri. L’eterno processo di rieducazione e l’espiazione perpetua della colpa che spetta ai vinti, il mainstream imposto dalla “democrazia blindata” che non favorisce il pluralismo bensì i revanscisti di professione (AfD), e la devozione verso un’economia politica che non riesce a farsi politica economica. Difatti (come dimostra lo stato d’eccezione provocato dal conflitto russo-ucraino) senza una visione, senza la volontà di costruire una praxis politica per divenire processo storico attivo e operante, i conti non tornano. Perciò il primo dubbio che Berlino è chiamata a fugare è il seguente: cosa fare per tornare a essere? Serve la politica per rilanciare una cosciente azione diplomatica e per ristabilire l’ordine interno. Di certo, scomodando e parafrasando Brecht, la Germania non può limitarsi a essere derisione o spavento in mezzo ai popoli. Una Germania debole non conviene a nessuno, soprattutto a noi europei.

Giulia Gigante

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