Stupore, sconcerto, forse un supplemento di cinismo nei confronti della politica. Gli italiani hanno avuto modo di commentare il grande duello sui media ufficiali, nelle chiacchiere dei social. E sembrano sconcertati. Sconcertati coloro che, al Lincoln Memorial, avevano potuto ammirare dal basso in alto l’enorme presidente che dal suo trono di pietra scruta il futuro della nazione. Sconcertati i molti che avevano fatto le ore piccole davanti a House of Cards, seguendo le trame di un altro presidente come fosse una crime story. E sconcertati anche quanti avevano letto le pagine dolenti di Philip Roth – Roth, non Tocqueville – e conoscevano tutta la fragilità della democrazia in America.

Ma ce lo possiamo permettere, questo stupore? Per un paese come il nostro, che ha inventato pratiche democratiche spesso contorte, la costituzione catto-comunista, il bipartitismo imperfetto, il consociativismo, la conventio ad excludendum, e via dicendo, forse per gli italiani quel de profundis dell’America in diretta tivvù dovrebbe suscitare anche altri interrogativi, altre emozioni, forse dovrebbe sollecitare l’autocoscienza. C’è qualcosa che non torna, nel nostro sconcerto. L’Italia della mia generazione aveva scoperto l’America sull’onda delle (sacrosante) mitologie dei vincitori della guerra, Robert Mitchum, Henry Fonda, John Wayne, gli eroi che erano venuti a liberarci dai mostri che noi stessi avevamo inventato. E poi si era gettata a capofitto nelle infinite piacevolezze dell’impero del soft power, proprio quando, agitata dai comunisti, aveva preso forma la cultura dell’antiamericanismo.

Ma senza esagerare. Dopotutto eravamo stati dalla parte di Kennedy, ci eravamo emozionati per Budapest e per Praga, temevamo l’Orso russo. E anche oggi, dopotutto, i figli dei nostri figli, coloro che non hanno dovuto barcamenarsi tra gli scogli della Guerra Fredda, sono americani più che antiamericani, non bruciano le bandiere a stelle a strisce nei cortei per la pace, sono poca cosa gli studenti propal, poca cosa i gruppi filoputiniani, poca cosa i giovani woke. E siamo noi – i vecchi, i figli, i figli dei figli – che ieri ci siamo stupiti di fronte alle sequenze del grande duello, alla brutale evidenza della civiltà delle immagini. La democrazia sembra fatalmente in crisi, ci siamo detti. Davanti a noi c’era un anziano signore che perdeva il filo, mormorava confusamente progetti di rilevanza geopolitica, alzava inutilmente il dito indice, come fanno quei nonni alla ricerca della perduta potestà o forse della vita che finisce.

E, dall’altra parte, ecco un altro anziano signore, mascella volitiva, sguardo aggressivo, parole affilate come il coltello nel burro. Il primo potrebbe spegnersi alla maniera di una candela consumata, gli stessi democratici ne diffidano, ma è la diga di fronte all’abisso. Il secondo è lo stesso che, con buona pace dei Classici, teorizza la dittatura della maggioranza, nega la validità delle elezioni, promette di vincere anche se perderà, smentendo le radici stesse della democrazia. Eppure sono loro, incredibilmente, i campioni di due storici partiti, di due enormi grappoli di interessi, di due culture che mischiano conservatori e liberal, bianchi e coloured, ricchi molto ricchi e ceto medio immiserito. Di due visioni del mondo, sia pure sotto l’ombrello dello stesso orgoglio nazionale.

Com’è possibile che democratici e repubblicani abbiano fatto una simile scelta? Che i democratici si siano incamminati sulla strada della sconfitta sicura? Gli italiani guardano le immagini, leggono i commenti, si scandalizzano. E però mostrano di avere la memoria corta. Trump sta andando a passi da gigante verso la vittoria perché i democratici – scrive Federico Rampini – hanno pensato di poterlo sconfiggere anche con un candidato debolissimo. Perché hanno creduto che, chiunque avesse avuto il coraggio di lottare contro il Male, sarebbe riuscito a portare dalla sua il paese. E oggi, a quattro mesi dal fatale 5 novembre, scoprono che forse il loro candidato è davvero troppo debole. Che forse il Male ha le sue radici, le sue ragioni, la sua constituency. Che forse ha con sé un altro paese, non una minoranza, ma un intero paese. Che forse, anzi sicuramente, vincerà. Apparenti incongruenze, marchiani errori, bizzarrie della politica che agli italiani dovrebbero dire qualcosa. Perchè se c’è un fenomeno che ha storicamente mutilato il corretto funzionamento della democrazia italiana è, mutatis mutandis, la trasformazione degli avversari in nemici, la loro delegittimazione, la loro demonizzazione. La loro trasfigurazione nel Male.

Anche in Italia, fin dalle origini della Repubblica, è sempre esistito un paese diffidente verso la politica, verso la sua pedagogia invadente, verso la sua tendenza ad occupare ogni anfratto della vita civile. Un paese-contro, un paese non addomesticato, ma eternamente ridotto ai limiti del discorso pubblico. Un paese di reazionari nell’Italia antifascista, di conservatori nell’Italia del centrosinistra, di indifferenti nell’Italia dell’antiberlusconismo, di arrabbiati grillini nell’Italia dei supertecnici. Un paese misconosciuto, che aspetta sempre l’occasione giusta per dire la sua, spesso terremotando il quadro politico, spesso facendo scelte che a molti europei – e a molti liberal americani, per ironia della sorte – sono sembrate assurde. Pochi, troppo pochi si sono chiesti se quell’Italia avesse le sue ragioni. Molti, troppi, hanno creduto che bastasse agitare lo spettro del Male per recuperare il consenso del paese. E, come sappiamo, non sempre è andata così.