Il dibattito sulle riforme istituzionali accompagna la storia italiana da 40 anni: dalla prima commissione presieduta dal liberale Aldo Bozzi (1983-1985), passando per la De Mita-Iotti (1993-1994), la Bicamerale D’Alema (1997-1998), il DDL Calderoli (2006), la bozza Violante del 2008, il gruppo di lavoro ad hoc istituito nel 2013 da Napolitano, fino al disegno di legge Renzi-Boschi bocciato nel referendum costituzionale del 2016. Quel NO sembrò mettere una pietra sopra ogni velleità riformatrice.

E, in effetti, nella legislatura 2018/2022, né i populisti né i tecnocrati al governo avevano riaperto alcun dossier istituzionale.
Ora, con il ritorno della politica al comando, l’esigenza torna con prepotenza nell’agenda pubblica, sdoppiandosi nel progetto di autonomia differenziata e nella riforma del premierato. Ma perché, dopo gli insuccessi del passato, c’è chi è tanto matto da rispolverare una materia così delicata e divisiva?

Il problema di cambiare

Una risposta possibile è che, da Bozzi a Renzi, tutti hanno attentato alla Costituzione più bella del mondo solo per farsi beffe dei suoi padri, per mai sopite vocazioni autoritarie, per spartirsi meglio il potere. E che l’Italia non ha nessun bisogno di riforme perché la nostra infrastruttura istituzionale funziona bene, e dunque va semplicemente difesa da ogni attacco proditorio. Rispetto chi la pensa così, personalmente mi riesce difficile dialogarci.

Poi c’è un’altra risposta possibile. Chiunque vada al potere – destra o sinistra non cambia – impatta da decenni con una democrazia non decidente: istituzioni inefficienti, una PA disastrata, corporazioni impenetrabili (per non parlare del cancro giustizia). E si pone, comprensibilmente, il problema di cambiare. Per questo semplice motivo torna sul tema riforme e cerca di promuoverle. Magari con progetti imperfetti e rivedibili, che l’opposizione dovrebbe essere capace di correggere, con proposte concrete e di buon senso, invece di inscenare chiassose, inutili e retoriche proteste in piazza o in Parlamento.