Questa settimana vogliamo dedicare l’intera pagina al Pride. Esattamente una settimana prima di quello milanese. Lo facciamo considerandolo un paradigma del modo in cui la politica, la società, la cultura intendono il concetto di libertà, anzi di come e quanto ancora fatichino a farlo proprio nella sua interezza, a ben vedere decisamente impegnativa. Gli scudi, dietro i quali ci si protegge con le proprie consolidate convinzioni, sono tanti: la legge, la natura, la tradizione, la religione. Il fatto è che a nascondersi ci si abitua, ma per fortuna viviamo nell’era della comunicazione, dove la più potente, utile è quella spontanea, fuori controllo. Quella dei social.

Il parametro

E da lì arriva, violenta, la verità. Il giudizio morale, il disprezzo civile, l’avversione politica, la negazione dei diritti, la costruzione di diversità come portatrice di male, non sono pulsioni di pochi, ma principi di troppi, affermati con la protervia di chi si autodefinisce maggioranza e ne rivendica il primato. La storia ci insegna che quando queste sono le condizioni, la scelta è tra credere nella libertà fino in fondo o farsi strumento di chi la avversa. Nessuno scudo, nascondiglio, nessuna via di mezzo è ammessa. Ed è così che il Pride ci chiede di essere vissuto, offrendosi come parametro assoluto per mettere alla prova la nostra capacità di ripudiare qualsiasi distinguo.

Il patrocinio negato

Di resistenze ve ne sarebbero già fin troppe, ben alimentate da certa politica che coltiva le paure, ma altre se ne creano perfino dall’interno, cercando di piegare il Pride alle ideologie con manifesti che vorrebbero tracciare altri confini, come descritto in questa stessa pagina. La sua forza, sfacciata, senza mezzi termini è invece nell’inclusività assoluta, offerta e richiesta. “Il Pride è divisivo” è stato detto alcuni giorni fa nel Consiglio Regionale della Lombardia, dove la maggioranza ha negato il patrocinio. E sarebbe da dar ragione: da sempre la libertà divide, tra chi la pratica e chi la teme.

Mario Alberto Marchi

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