Nonostante secoli e secoli di speculazione, il grande enigma di fondo della materia penale ancora non è stato dipanato. «Da millenni gli uomini si puniscono e da millenni si domandano perché lo facciano». La domanda di Eugene Wiesnet non ha ancora trovato una risposta risolutiva ed anche autori – come dire – (decisamente) meno agnostici (come Hassemer) parlano di un tema «ingombrante, luccicante, affascinante e minaccioso allo stesso tempo»; «una seduzione oscura». Un aspetto fondamentale della fascinazione del diritto penale è il rapporto con il male, compreso quello intrinseco allo stesso sistema delle punizioni.

Il «diritto penale non è solo uno strumento a vantaggio delle persone: esso può divenire anche un’arma che si ritorce contro le persone, e può infliggere ferite anche gravi», come nel caso – il più eclatante – della reclusione. Da una lettura «attenta e profondamente disincantata sugli strumenti repressivi più radicali» (qual è appunto il carcere) – ha scritto assai bene Roberto Bartoli – emerge che una cifra della penalità è la «sua capacità escludente, la sua dinamica eliminatoria ed espulsiva che fa di chi subisce la pena una sorta di capro espiatorio. Anzi a ben vedere, la cifra più profonda della sanzione afflittiva è proprio questo tratto. Ogni volta che la penalità presenta una meccanica eliminatoria, se da un lato la violenza viene distolta dalla società, dall’altro lato tale violenza viene scaricata sul singolo che diviene una sorta di vittima sacrificale». Per questo sarà sempre valido il monito di Claus Roxin: la «giustizia penale è un male necessario»; se «supera i limiti della necessità resta soltanto il male». Solo l’assoluta necessità di punire può compensare la stridente contraddizione tra la certezza del male che implica la punizione e l’incertezza, anzi l’assenza di una chiara giustificazione del punire, al di là del postulato “punire è necessario”, che ancora non siamo in grado di superare.

La speranza in un mondo non punitivo, cioè in un mondo, così generoso, che non commini sanzioni, rischia di essere affrettata, se non irresponsabile, cinica (Hassemer) e, in definitiva, controproducente. Dobbiamo essere realisti, ma non rinunciare alla speranza come insegna Noam Chomsky: «Se rinunciamo e ci rassegniamo alla passività, faremo in modo che accada il peggio; se invece conserviamo la speranza e ci diamo da fare perché le sue promesse divengano realtà, allora le cose potranno migliorare». Per questo «il superamento del diritto penale e l’attenuazione del suo carattere afflittivo costituiscono comunque obiettivi meritevoli di essere perseguiti» (così il principio n. 6 del Manifesto del diritto penale liberale). Spes contra spem, quindi, non dobbiamo rinunciare a ribadire tre obiettivi fondamentali della politica-punitiva: meno sanzioni, più cultura/educazione; meno carcere/più alternative (tutte le alternative possibili) alla reclusione; un carcere più umano, qui ed ora, perché la tragedia dei suicidi tra i detenuti – 44 ad oggi dall’inizio dell’anno, un numero enorme, scandaloso! – e (in misura minore, ma non per questo non rilevante) tra le fila della polizia penitenziaria è un’assoluta emergenza del nostro paese.