1993, l’anno del terrore: i giorni infuocati di Mani pulite nel libro di Mattia Feltri

Consiglio la lettura di “Novantatrè: l’anno del Terrore di Mani pulite’’, un saggio di Mattia Feltri edito da Marsilio, con prefazione di Giuliano Ferrara. Il mio consiglio non è rivolto soltanto a chi non ha vissuto quel periodo della nostra storia perché era un bambino o addirittura non era ancora nato (e che oggi è già una persona adulta), ma soprattutto a quanti – come chi scrive – c’erano e hanno conosciuto da vicino quegli avvenimenti. Il saggio di Feltri segue un filone cronologico, raccontando giorno per giorno l’escalation del Terrore: la situazione precipitò in pochi mesi, senza che i protagonisti – importanti o meno che fossero – se ne rendessero conto, mentre l’opinione pubblica – montata da una campagna mediatica forsennata – si caricava di disprezzo, odio, sete di vendetta, idolatrando, in un crescendo di fanatismo, il pool dei vendicatori della Procura di Milano, guidato da Francesco Saverio Borrelli e impersonato da Antonio Di Pietro. Feltri non fa congetture, non esprime opinioni; si limita a raccontare i fatti, raccogliendo le dichiarazioni di magistrati, esponenti politici, titoli di prima pagina, articoli delle grandi firme (o di firme di persone che divennero grandi proprio per come si occuparono di quella vicenda). Talvolta, l’autore insegue le opinioni espresse sul momento, nel loro divenire a distanza di anni, allo scopo di richiamare le persone alle loro responsabilità nel determinare quegli eventi e impedendo loro di assicurarsi una salvezza postuma della coscienza. Perché non è possibile ricordare quei giorni senza provare vergogna anche per se stessi.
Ovviamente i reati non erano frutto di una macchinazione delle procure. Il sistema politico si nutriva di tangenti, su qualunque affare in cui la mano pubblica avesse un ruolo. I partiti erano come “i ladri di Pisa” che – secondo un antico proverbio – litigano di giorno e vanno a rubare insieme di notte. Gli amministratori si incontravano (sia che appartenessero alla maggioranza o all’opposizione) e si spartivano il malloppo secondo un tariffario concordato. Anche in queste operazioni c’erano differenze di stile, di quantità e di qualità delle esazioni, differenze nell’uso delle risorse (riservate al partito in quanto tale oppure a qualche leader di corrente che doveva sostenere le campagne elettorali dei suoi ‘’fidi’’ nei territori). Spesso si aveva a che fare con vere e proprie compagnie di ventura, disposte a passare da una corrente all’altra – portandosi appresso i voti clientelari – per mere ragioni di potere (e di risorse disponibili per l’agone politico).
Era una macchina infernale, costretta ad andare avanti comunque. Capitò in quegli anni che alcune persone perbene si trovassero catapultate al vertice di un’organizzazione di partito, a cui confluivano regolarmente e da tempo finanziamenti occulti, con i quali si mandava avanti la baracca, si pagavano gli stipendi, si sostenevano le spese delle iniziative politiche. Oppure, di converso, vi fossero altre persone a capo di un ente pubblico o di un’azienda a partecipazione statale, che subentravano, con la nomina, in un giro consolidato di risorse distribuite ai partiti o alle correnti o a qualche leader importante. L’etica rusticana perdonava il ‘’rubare’’ per fare politica, ma non perdonava fare politica per ‘’rubare’’. Nella catarsi di quell’anno ci andarono di mezzo ‘’tesorieri’’ (come Severino Citaristi della Dc) considerati di una onestà cristallina, incapaci di intascare una sola lira per loro stessi.
Dove stava, allora, il problema? Certo, nessuno si aspettava che il sistema dei finanziamenti illeciti fosse tanto diffuso ed implacabile, come risultò dalle inchieste. Il fatto è che avveniva sotto gli occhi di tutti, che bastava mettersi lì la sera dopo cena a fare un po’ di conti – invece che le parole incrociate – per consentire a ciascun buon padre di famiglia di capire che c’era un trucco, che non bastava il finanziamento pubblico, le quote degli iscritti, gli incassi dei festival di partito i prelievi sugli stipendi dei parlamentari per sostenere ‘’il costo della politica’’. Sul tema delle mazzette si facevano pure i film; e non quelli del tipo ‘’grandi inchieste’’, ma veri prototipi della commedia all’italiana. Poi ci fu qualcuno che si mise a gridare che il re era nudo. E tutto cominciò a crollare.
Quel che il saggio di Feltri mette in luce è il tentativo di una parte della classe dirigente di salire sulla nave dei ‘’buoni’’ e di mettersi al riparo dall’odio dell’opinione pubblica, attraverso la delazione e l’abbandono a se stessi degli indifendibili, di coloro che venivano colpiti (risultando, magari anni dopo, estranei ai fatti per cui erano stati ospiti delle patrie galere) dalle Parche di una giustizia che pretendeva di imporre non il rispetto della legge, ma un’etica pubblica da ristabilire attraverso un repulisti contrabbandato come una rivoluzione civile.
Chi scrive, per un breve periodo, ha fatto parte dei ‘’buoni’’. Quando Giorgio Benvenuto (che non volle mai occupare lo studio di Craxi) venne eletto segretario al posto del ‘’Cinghialone’’, Craxi mi chiese di entrare a far parte della sua segreteria. Io accettai perché la mia posizione nella Cgil era divenuta insostenibile. Ricordo che dopo quella nomina ricevetti una marea di telegrammi di felicitazioni, come non mi era mai successo in altre occasioni. Le cose precipitarono tanto in fretta che meno di due mesi dopo ero disoccupato, avendo seguìto Benvenuto quando rassegnò le dimissioni (per mia fortuna fui in grado di apprezzare la generosità della Cgil che mi attribuì, su mia richiesta, un incarico defilato e il relativo stipendio). Presi parte allo scontro con il vecchio gruppo dirigente, quando Benvenuto lanciò l’appello ‘’fuori i corrotti’’ dagli organi dirigenti. Mi rimase impressa l’impossibilità di quei compagni ‘’avvisati’’ di difendersi, tanto da subire, come un atto dovuto, quell’esclusione arbitraria.
Durante la discussione su quel tema negli organi dirigenti , Gino Giugni, allora presidente del partito, a cui scappò la parola ‘’corrotti’’, fu redarguito da Paris Dell’Unto che gli sedeva vicino e che lo sovrastava con la sua mole: ‘’Corrotti? Sono un corrotto io?’’. Quando me ne andai dissi, intervenendo in direzione, che provavo comprensione per chi aveva deciso di rimanere.
Tornando al saggio, ci sono delle pagine – e sono tante – che feriscono e provocano una profonda indignazione. Il suicidio in carcere di Gabriele Cagliari, dopo che la sua richiesta di arresti domiciliari veniva regolarmente respinta (dal carcere uscivano solo i delatori) e gli insulti che commentarono quel tragico destino da parte del popolo dei fax (gli antesignani dei social), fino ad offendere la famiglia davanti alla chiesa nel giorno dei funerali. Antonio Pappalardo – tuttora sulla piazza – commentò quella tragedia così: ‘’ormai è venuto il tempo che a Tangentopoli subentri in tempi brevi Condannopoli’’.
L’”onesto” Mino Martinazzoli commentò l’aria che tirava segnalando l’arrivo massiccio di fax nei quali veniva manifestata la speranza che tutti si suicidassero. Poi Feltri rammenta – con le dichiarazioni dei magistrati – la decisione del pool di ‘’risparmiare’’ il Pds (salvo prendersela con i ‘’miglioristi’’ milanesi perché filo-craxiani). Fu provato che Primo Greganti (comunista tutto di un pezzo del tipo ‘’ Ma mi, ma mi, ma mi,quaranta dì, quaranta nott, sbattuu de su, sbattuu de giò: mi sont de quei che parlen no!) entrò a Botteghe Oscure con una valigetta contenente la quota di una tangente, ma la procura di Milano accettò per buona la spiegazione dei dirigenti i quali sostennero che in quei giorni non si occupavano di amministrazione perché turbati dalla repressione di piazza Tienanmen a Pechino. Così non fu possibile sapere a chi fosse stato consegnato il malloppo. Quando Tiziana Parenti, sostituto del pool, propose di inviare un avviso di garanzia al Bottegone, venne fermata dai colleghi (qualcuno disse che le era necessaria una perizia psichiatrica); e Borrelli sentenziò: ‘’Questo non è il processo al Pds, ma a Greganti e a Stefanini’’. Mi fermo qui, limitandomi a far notare, senza indulgere a dietrologie ma solo ad interrogativi, quanto fosse strano il suicidio di due dei protagonisti della chimica pubblica (Cagliari) e privata (Gardini) a cui si aggiungeva quello di Sergio Castellari, il personaggio chiave del ministero delle PPSS. Un altro manager chimico – Lorenzo Necci – dopo varie vicissitudini, trovò la morte anni dopo in un incidente stradale.
Tante altre storie scandalose (avvenute con il plauso di un’opinione pubblica sobillata) sono narrate nel libro: dall’insurrezione eversiva del pool contro il decreto Conso, ai suicidi di Raul Gardini e Sergio Moroni; dalla persecuzione di Francesco De Lorenzo (che, alla fine, fu condannato solo per finanziamento illecito dopo essere stato dipinto come il vampiro della sanità), alla sollevazione popolare contro il voto della Camera che negava l’autorizzazione a procedere per Bettino Craxi dopo che il leader socialista aveva svolto un memorabile discorso che oggi è ritenuto un gesto di coraggio e dignità, mentre, allora, venne giudicato un atto arrogante anche da molti socialisti in cerca di espiazione.
Poi vengono ricordati, nel saggio, i trattamenti di riguardo verso taluni politici (ben protetti) ed imprenditori d’antan, e il ‘’non ci sto’’ auto-assolutorio, a reti televisive unificate, di un capo dello Stato.
Il giochino del finanziamento illecito/concussione/corruzione non riuscì con Giulio Andreotti. Fu necessario scomodare la collusione con la Mafia, in quanto capo della sua corrente in Sicilia. In proposito è interessante raccontare un episodio accadduto a Roma proprio nei giorni in cui il Divo Giulio era stato ‘’avvisato’’. In uno dei palazzi vicini al Parlamento venne svolto un convegno sull’Europa (c’era stato il Trattato di Maastricht) con ospiti autorevoli della burocrazia di Bruxelles. Io arrivai in anticipo e notai che il sen. Andreotti stava seduto in prima fila, impassibile e solo. Quando le personalità cominciarono ad arrivare ci fu una gara per sedersi vicino a lui. Venne anche l’allora presidente incaricato Antonio Maccanico che volle accomodarsi a fianco del senatore a vita. Quando il dibattito iniziò, tutti i conferenzieri rivolsero indirizzi di omaggio deferente al ‘’presidente Andreotti’’. Non potei fare a meno di chiedermi se Craxi avrebbe ricevuto la medesima deferente accoglienza.
Concludo citando una brano scritto su Libération del 24 luglio dell’anno del Terrore, riportato da Feltri: ‘’Abbiamo un barometro per misurare la sincerità dei magistrati italiani: dopo aver chiamato in causa politici e uomini d’affari, vedremo se chiameranno in causa, nella società delle pastette organizzate qual è diventata l’Italia, il ruolo svolto dalla magistratura stessa, senza la cui complicità nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto’’. Di quel barometro si è persa ogni traccia.