La festa della liberazione
25 aprile, festa di tutti e di nessuno…

Festeggiamo la liberazione di settantacinque anni fa mentre nel Paese trionfa un clima di involuzione non troppo diverso rispetto a quello che assediava il vivere civile degli italiani durante un ventennio di dittatura. E la natura esemplare di questa concomitanza sfugge solo a chi non ha occhi per vedere: solo a chi rifiuta di riconoscere che gli italiani si sono raccontati la storia della liberazione in modo duplicemente contraffattorio. E cioè disconoscendo innanzitutto che l’Italia nel 1945 era liberata da se stessa, era liberata dal “proprio” costume illiberale: perché non era la minaccia dell’olio di ricino a smuovere la delazione, non era il manganello a estorcere l’oro alla Patria.
E poi – questa è la seconda mistificazione – disconoscendo che a quella liberazione da se stessa l’Italia non perveniva grazie a se stessa ma per forza e intervento altrui. Nella combinazione di questi due interdetti si sviluppa la retorica celebrativa che lungo tutto il corso repubblicano, e fino a oggi, ha impedito agli italiani di vivere in spirito genuinamente comunitario la festa del 25 Aprile: una ricorrenza che rischia di non appartenere al patrimonio comune non per l’insultante giustapposizione di qualche rimostranza neofascista, che pure c’è ed è giusto contrastare, ma perché una festa nazionale può dirsi tale quando “è” di tutti, non quando “deve essere” di tutti.
E a comprometterne la capacità rappresentativa, a revocarne lo spirito unificante, non sono, appunto, le sparute manifestazioni del revisionismo a braccio teso, ma le forzature e il carattere impositivo di quella storia falsa. La Repubblica dell’antifascismo avrebbe avuto tutto il diritto di costituirsi, e ad essa lo spirito degli italiani si sarebbe subordinato con degna gravità anziché in questo modo contraddittorio e irrisolto, se si fosse fondata sul riconoscimento necessario che nell’antifascismo l’Italia negava se stessa: e invece ha fatto le viste di riconoscervisi. Meglio: agli italiani si è detto che avevano il dovere di riconoscersi nel proprio antifascismo, cioè in una cosa impossibile da riconoscere perché non c’era.
Se gli italiani avessero spiegato a se stessi la necessità di contenere la “propria” propensione alla soluzione illiberale, la “propria” incapacità di darsi un governo rivolto alla primaria tutela delle libertà individuali, insomma se gli italiani avessero risentito il dovere di ritrovarsi nel riconoscimento piuttosto che nella negazione dei propri difetti, allora l’antifascismo sarebbe insorto e si sarebbe diffuso nella verità di un patrimonio condiviso.
Così non è stato e così continua a non essere, ed è per questo motivo che questa festa che deve essere di tutti non riesce a essere veramente di nessuno, nemmeno di quelli che tanto più ne reclamano la tradizione e (guarda caso) tanto più aggressivamente ne pretendono un’imposizione routinaria e pomposa. E si noti: sono gli stessi che non riconoscono, e anzi negano, il segno autoritario e antidemocratico delle politiche che si stanno scaricando ormai da qualche mese sulla vita degli italiani. Gli italiani che, infine e terribilmente, mai si sono sentiti tanto uniti, mai si sono sentiti tanto italiani, come oggi nella più grave e violenta devastazione delle loro libertà.
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