Il 25 aprile, anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo nel 1945, è una delle date più importanti nella storia repubblicana italiana. Questa celebrazione, a causa della morte di Papa Francesco, non dovrebbe avere i risvolti degli anni passati. Molti eventi programmati sono stati cancellati e messi in sordina, e il 25 aprile dovrebbe essere alieno da ogni eccesso o ridondanza. Tuttavia, anche dopo 80 anni, continua a essere culturalmente e politicamente divisivo per varie ragioni storiche, ideologiche e identitarie. Viene celebrata la Resistenza, un movimento composito che unì forze politiche diverse – comunisti, socialisti, cattolici, azionisti, liberali e persino frange monarchiche – contro il nazifascismo. Ma la componente comunista fu molto forte e visibile, soprattutto nel Dopoguerra, quando la narrazione della Resistenza venne spesso associata – soprattutto a sinistra – all’antifascismo militante e al ruolo del Pci. Questo ha portato una parte della destra italiana, in particolar modo quella che ha radici nel post-fascismo (MSI, AN, FdI ecc.), a sentirsi esclusa o addirittura a considerare la festa come una celebrazione di parte.

Il fascismo esiste ancora

In Italia non c’è mai stata una piena riconciliazione nazionale dopo la guerra civile (1943-1945). I crimini dei fascisti e dei nazisti, ma anche alcune violenze dei partigiani – come le esecuzioni sommarie e le foibe, nel confine orientale – sono ancora oggetto di interpretazioni contrapposte. Alcuni vedono il 25 aprile come una festa di “libertà”, altri lo vivono come una data non neutra, dove non tutti i morti sono ricordati allo stesso modo. Negli anni è stato spesso strumentalizzato politicamente. Per la sinistra è una data identitaria, legata all’antifascismo come valore fondante della Repubblica; la destra, soprattutto quella più recente, ha alternato atteggiamenti critici, silenzi, o partecipazioni tiepide, sostenendo che l’antifascismo sia stato usato per delegittimare l’avversario politico. A differenza di Germania o Francia, in Italia il fascismo non è mai stato completamente rimosso dall’immaginario nazionale. Alcuni simboli, personaggi o retoriche sono ancora presenti o riabilitati. C’è quindi una memoria divisa: per molti il fascismo è il male assoluto, per altri è un periodo storico con “luci e ombre”, il che rende difficile una memoria condivisa.

Oggi molti giovani si sentono lontani dalla retorica resistenziale tradizionale e faticano a relazionarsi con una narrazione che percepiscono come “vecchia” o ideologizzata. Questo crea un vuoto che può essere riempito da letture revisioniste o neutralizzanti – “erano tutti italiani”, “basta divisioni”, ecc – alimentando ulteriormente la divisione. In ultima analisi, il modo in cui destra e sinistra si rappresentano al 25 aprile riflette visioni molto diverse della storia, della memoria collettiva e dell’identità nazionale. Per la sinistra italiana, è una data fondativa, non solo storicamente ma anche simbolicamente. Celebra la Resistenza come lotta di liberazione collettiva e popolare; la fine del fascismo come regime oppressivo e violento; l’inizio di un’Italia democratica, antifascista e pluralista. La sinistra insiste spesso sull’antifascismo non come un’opzione ideologica, ma come base irrinunciabile della convivenza civile. Partiti di sinistra, sindacati, Anpi e movimenti progressisti partecipano ogni anno alle manifestazioni con discorsi, cortei e iniziative culturali. È vista come una festa civile da difendere, anche contro forme di revisionismo.

Le polemiche

Una parte della destra italiana ha vissuto a lungo il 25 aprile con sospetto: lo ha percepito come una celebrazione “di parte”, dominata dalla sinistra e dai comunisti; ha rivendicato il “dolore” anche dei vinti, dei repubblichini, delle vittime delle vendette post-belliche. Negli ultimi anni, con l’ascesa della destra al governo, si è visto un tentativo di istituzionalizzare la Liberazione, ma con toni meno “militanti”. Assistiamo a polemiche su cosa debba significare oggi “essere antifascisti” e a discussioni sul rischio di “depotenziare” la memoria storica, riducendo la festa a una generica celebrazione della pace.