Pochi omicidi degli anni del terrorismo impressionarono a fondo l’opinione pubblica di allora come l’uccisione di Walter Tobagi, quarant’anni fa, il 28 maggio 1980. Due terroristi della neonata Brigata XXVIII Marzo, Marco Barbone e Mario Marano, lo colpirono con cinque colpi per strada, poi Barbone cercò di finirlo con un inutile colpo di grazia. A quel punto Tobagi, colpito al cuore, era già morto. Non era la prima volta che un giornalista veniva colpito. Le Br, tre anni prima, avevano ucciso Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa e ferito Indro Montanelli. La stessa Brigata XXVIII Marzo, prima dell’omicidio Tobagi aveva ferito Guido Passalacqua, di Repubblica. La morte di Tobagi fu in un certo senso ancora più sconvolgente. Era un uomo molto giovane, appena 33 anni, e molto brillante. L’impressione fu davvero quella di una vita spezzata ancora all’inizio, di una promessa alla quale era stato impedito di essere mantenuta. Inoltre, Tobagi era un uomo di sinistra, socialista e cattolico, con alle spalle esperienze redazionali all’Avanti! e poi all’Avvenire. Aveva seguito e scritto un libro importante, già all’inizio degli anni Settanta sul Movimento studentesco e i gruppi marxisti-leninisti. Seguiva la parabola del terrorismo con rigore, senza alcuna civetteria ma anche cercando di capire e scandagliare. Senza furori ideologici.

Quell’omicidio fu una sorta di spartiacque per la composizione del gruppo che aveva deciso l’esecuzione. Molti erano ragazzi di buona, anzi ottima famiglia, provenienti da ambienti vicini al Corriere della Sera, il giornale di Tobagi. Appena arrestato, poco dopo l’attentato, il leader, Marco Barbone si pentì quasi ancora prima che le manette si fossero chiuse intorno ai suoi polsi e le sue denunce massacrarono gli ambienti dell’Autonomia, dai quali provenivano tutti i militanti del gruppo. La spiegazione dell’omicidio, poi, fu particolarmente agghiacciante. La XXVIII Marzo voleva entrare nelle Br e aveva bisogno di credenziali di sangue per passare dalla porta principale, non come militanti qualsiasi. A rendere quel caso particolarmente clamoroso fu il seguito. La guerra tra Bettino Craxi e la procura di Milano cominciò infatti allora. Il leader socialista sospettava che i mandanti dell’assassinio fossero rimasti ignoti e provenissero dall’interno stesso del quotidiano di via Solferino. La tensione tra Tobagi, di sinistra e socialista ma anti Pci, e il cdr era in effetti fortissima, i litigi frequenti ed esplosivi, l’ultimo proprio la sera prima dell’omicidio. Sui muri della redazione comparivano scritte come “Tobagi: Craxi Driver”.

Ma a destare i sospetti del socialista rampante non era affatto solo l’ostilità della sinistra vicina al Pci nei confronti del giornalista del Psi. C’erano elementi molto più concreti. Il volantino di rivendicazione era anomalo, differiva dalla prosa abituale dei gruppi armati per la precisione dell’analisi e per la conoscenza di dettagli non di dominio pubblico, come un’antica presenza di Tobagi nel cdr del Corsera, diversi da quello del quotidiano e praticamente ignorati, dopo anni, da tutti. Gli analisti conclusero che solo l’ultima parte del documento era davvero di pugno dei ragazzi della XXVIII Marzo. La minuta del volantino, poi, sembrava seguire le regole in vigore allora nelle redazioni, e in particolare in quella del Corriere, con sei spazi bianchi per indicare ai tipografi la necessità di andare a capo. C’era di più. L’approfondimento del Psi rivelò che un infiltrato aveva già preannunciato un attentato contro Tobagi, a opera delle Formazioni Comuniste Combattenti, poi confluite nella XXVIII Marzo, già nel 1979.

Su questa base il leader socialista contestava la versione della Procura, sospettava anche che il pentimento dei terroristi non fosse stato spontaneo ma preparato in anticipo per mettere i mandanti al riparo dalle indagini. La tensione iniziale si trasformò presto in guerra aperta a colpi di accuse da far tremare la Repubblica e citazioni in Tribunale. Quando la Procura di Milano decise di infilare la vicenda in uno dei maxi processi contro il terrorismo in voga all’epoca, con decine di imputati e di delitti e dunque senza la possibilità di approfondire il caso, per il leader del Psi fu la prova provata di una fredda volontà di insabbiamento. Craxi non era il solo a sospettare la presenza di mandanti. Subodoravano qualcosa di poco chiaro il generale capo dell’antiterrorismo Carlo Alberto dalla Chiesa, il procuratore Adolfo Beria di Argentine, il ministro degli Interni e futuro presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Avevano torto. Nessuno aveva ordinato ai terroristi-in-carriera della XXVIII Marzo di uccidere Walter Tobagi, anche se probabilmente la scelta dell’obiettivo e i contenuti del documento di rivendicazione riflettevano le critiche e l’ostilità della sinistra di allora nei confronti del giornalista “craxiano”. Le informative, come ha acclarato nel 2018 il pm Guido Salvini, c’erano state davvero. Ma si erano fermate nei cassetti dei carabinieri, ai quali erano state consegnate, per sottovalutazione e non per dolo.

Lo scontro violentissimo fra Craxi e la procura di Milano andò avanti a lungo. Le bordate del leader socialista, ora Presidente del Consiglio, diventarono sempre più esplicite e agguerrite. Il Csm decise di mettere ai voti una mozione di censura contro il premier, il 5 dicembre 1985. Il capo dello Stato Francesco Cossiga, presidente del Csm, vietò l’odg e annunciò la decisione di presiedere di persona la riunione. Il Csm decise di sfidarlo e di andare avanti comunque. Cossiga spedì un battaglione di carabinieri in tenuta antisommossa di fronte a palazzo dei Marescialli, sede del Csm, e minacciò di far arrestare i togati se avessero insistito. Per protesta tutti i membri togati del Consiglio rassegnarono le dimissioni. Anni dopo la figlia di Tobagi, Benedetta, avrebbe accusato la P2 di aver deciso l’assassinio di suo padre. Un sospetto molto meno giustificato di quelli, pur sbagliati ma non incomprensibili, di Craxi. L’ostilità fra la Procura di Milano e il partito di Craxi non sarebbe mai più rientrata e l’ora della resa dei conti sarebbe arrivata sette anni dopo, con Tangentopoli. Oggi molti ricorderanno, giustamente, il giovane e brillante giornalista ucciso dai terroristi che volevano entrare nelle Br con già pronti i galloni di ufficiali. Saranno molte di meno le voci pronte a ricordare che la fine della Prima Repubblica prese le mosse anche da quell’omicidio.