Sono passati quarantasei anni, quasi mezzo secolo, da quel maledetto 16/3/1978, il giorno in cui rapirono Moro. Lo Stato era in frantumi, la politica cercava faticosamente di rimettere insieme tutti quei frantumi sparsi e Moro sembrava essere l’unico tessitore capace di poter dare un senso di insieme a un paese slabbrato. Le immagini di via Fani disseminata di cadaveri e di pallottole, senza neppure un nastro che isolasse la scena del crimine, mentre il cronista televisivo passeggiava dolorosamente in mezzo a tutti quei bossoli, quelle immagini che abbiamo visto e rivisto mille volte in tv, sono il repertorio del nostro smarrimento di allora e forse anche di oggi.

Il ricordo di quei giorni e di quel clima ha scavato un solco che il tempo non ha avuto modo di colmare del tutto. Un solco forse ancora più profondo visto dalla parte di chi ha avuto la ventura di nascere dopo. All’indomani di tutto questo, per ogni anniversario che attraversiamo, viene facile consolarsi e pensare che la sfida di allora, giunta in fondo alle sue conclusioni, sia stata vinta. Ma temo che in realtà non sia stata una vittoria e che non ci sia una consolazione -e non solo per l’epilogo della morte di Moro. Infatti il terrorismo ha mostrato di avere dalla sua la forza di deviare la politica dai suoi percorsi, lasciandosi dietro una scia di sangue, di misteri e di sfiducia che per qualche verso arriva fino a noi. E se da un certo punto in poi è sembrato che il bandolo della matassa fosse tornato nelle mani dei “buoni”, questo è accaduto forse più per la sconfitta delle Brigate rosse che non per la vittoria dello Stato.

Un destino più ampio

La verità più profonda è che il destino di Moro ha finito per racchiudere in sé e nella sua tragica conclusione un destino ancora più ampio: quello della salute della Repubblica. Laddove si è riusciti ad evitare il peggio, ma non a costruire il meglio. Tant’è che da allora ci arrovelliamo senza costrutto intorno a quella stessa crisi di sistema che Moro si illudeva di poter risolvere e che a noi pesa ancora addosso come un macigno. O magari come un destino.

C’è una giustificazione che può recare conforto a chi c’era allora. E cioè il fatto è che noi, allora, non sapevamo. Non sapevamo se l’agguato di via Fani fosse un episodio, drammatico, apocalittico, ma racchiuso in se stesso, affacciato sul vuoto. Oppure se quell’episodio fosse invece l’inizio di una catena di cui non potevamo prevedere, né tantomeno contrastare, gli sviluppi successivi. In questo caso, ci sarebbe stato da fare i conti con l’impossibilità di capire cosa mai potesse essere in cantiere, quali altre violenze e atrocità ci potessero venir riservate, fin dove potesse arrivare la potenza di fuoco delle Brigate rosse (e con quali sostegni all’estero). La politica di quei tempi fu paralizzata da questa incertezza, e la racchiuse quasi tutta nel dilemma tra fermezza e trattativa – senza peraltro che mai quel dilemma desse vita a una scelta limpida, codificata da una doverosa procedura politica.

La coscienza pubblica

Quello che invece sapevamo, e che non potevamo non sapere, era che il terrorismo in quelle stagioni si era poggiato su di una base assai ampia, quasi di massa. La coscienza pubblica ha rimosso questo dato per la comodità delle sue notti insonni. Ma se solo accendiamo una piccola luce non possiamo non annotare come una parte non piccola e non irrilevante del paese di allora guardasse con una sorta di malcelata simpatia alla ribellione brigatista. Infatti furono in tanti, quel 16 marzo, ad applaudire il rapimento nelle scuole, nelle fabbriche, nei tinelli di casa. E non per caso l’attività terroristica continuò poi a imperversare per molti mesi, anche all’indomani della morte di Moro quando pure quel sentimento di ribellione aveva dovuto fare i conti con la mostruosità dei suoi esiti.

Non si trattò insomma, come avrebbe detto ai suoi tempi Benedetto Croce, dell’invasione degli Hyksos, spuntati da chissà dove, imprevisti e imprevedibili. Si trattò piuttosto, come scrisse lucidamente Rossana Rossanda, dell’album di famiglia della sinistra italiana. Merito straordinario della dirigenza del Pci fu quello di tagliare ogni connessione, ogni complicità, ogni indulgenza verso quella sfida. Che però, nel frattempo, si era guadagnata un’influenza di cui non ci saremmo liberati tanto presto.

Anni dopo viene facile consolarsi pensando che quelle ombre si siano a questo punto dissipate, forse una volta per tutte. È l’auspicio della mia generazione, che si trovò ad affacciarsi su quell’abisso, del tutto impreparata, nei suoi anni di formazione. Ma se qualcosa noi, ragazzi di allora, possiamo dire ai ragazzi di oggi, tanto lontani da quel drammatico trambusto, è che ogni democrazia è sempre fragile in se stessa. E che quella sua fragilità deve essere curata quotidianamente con un sentimento civile più forte di certe sue debolezze e più luminoso di molte sue opacità. Quello che tentammo di fare allora, senza riuscirci come volevamo.

Marco Follini

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