Napoli, febbraio 1952, Congresso della Cgil: il segretario generale Giuseppe Di Vittorio propone la definizione di uno “Statuto dei lavoratori” con il preciso obiettivo di “portare la Costituzione nelle fabbriche”. Per raggiungere la meta ci vollero 18 anni e una rivolta operaia senza pari nell’Occidente del dopoguerra. Il risultato non fu neppure giudicato sufficiente dal partito dello storico segretario della Cgil, nel frattempo scomparso. Quando lo Statuto dei lavoratori fu sottoposto al voto della Camera, il 15 maggio 1970, il Pci si astenne, come anche il Psiup e il Msi. Fu approvato con i voti della maggioranza di allora (Dc, socialisti e liberali) e del Pri. Il 20 maggio fu pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. Quando Di Vittorio lanciò la sua campagna per far entrare la Costituzione nelle fabbriche, la Carta fondativa della Repubblica era in vigore da quattro anni. Garantiva libertà e diritti ma non a tutti: si fermava ai cancelli delle fabbriche e, di fronte alle manifestazioni operaie, veniva sospesa e rimpiazzata dal piombo della polizia del ministro degli Interni dc, Mario Scelba. A Modena, il 9 gennaio 1950, la polizia aveva aperto il fuoco sugli operai che protestavano contro 500 licenziamenti, ferito 200 persone, ucciso sei manifestanti.

Con la Corea in fiamme e il rischio del conflitto nucleare dietro l’angolo, al culmine della Guerra fredda, i governi non andavano per il sottile. La Dc, nonostante le insistenze di Scelba e degli americani, evitò la messa fuori legge del Pci ma per il resto lasciò mano libera ai nuovi reparti di polizia del ministro, la Celere, e acconsentì alla sospensione di fatto di ogni diritto nelle fabbriche. Gli operai più attivi e sindacalizzati venivano falcidiati. La repressione politica era sfacciata e conclamata. L’appello di Di Vittorio restò lettera morta. Le cose, anzi, peggiorarono ulteriormente. Pochi mesi dopo, nel dicembre 1952, la Fiat inaugurò la pratica turpe dei reparti-confino, dove concentrare e isolare gli operai più attivi per evitare il contagio. Il primo fu l’Officina Sussidiaria Ricambi, Osr, ribattezzata seduta stante Officina Stella Rossa. Dalla Fiat i reparti confino si diffusero ovunque. I licenziamenti si moltiplicarono. La persecuzione contro la Fiom fu metodica. Non bastò.

La nuova ambasciatrice degli Usa in Italia, Clara Boothe Luce, fu tassativa: o la Fiom debellata alla Fiat o gli Usa avrebbero sospeso ogni commessa con la fabbrica torinese. Vittorio Valletta, presidente e ad, obbedì. Contro la Fiom fu lanciata una campagna persecutoria, senza esclusione di colpi, spudoratamente anticostituzionale. Nel 1955, nelle elezioni per la Commissione interna, per la prima volta la Fiom perse la maggioranza e a partire da quel momento non ci fu più limite all’imperiosità di un comando ormai senza più limiti. Il colonnello Renzo Rocca, alto dirigente del Sifar, il servizio segreto, mise a disposizione gli archivi dei servizi per facilitare il ricatto e la persecuzione dei militanti operai. L’ex capo partigiano bianco Edgardo Sogno, amico dell’ambasciatrice Usa, e il provocatore di professione Luigi Cavallo, espulso dal Pci si occuparono di orchestrare la campagna che portò alla disfatta della Fiom.

Nella flotta di aziende italiane che navigava verso il boom economico, la Fiat era la portaerei. Dava a tutti gli indirizzi. Il metodo Fiat, basato da un lato sul paternalismo e dall’altro sulla repressione di ogni dissenso, non poteva essere adottato da tutte le aziende. Ma la politica di repressione fu comune a tutti. I bassi salari, inferiori a quelli di tutti i Paesi concorrenti, e l’assenza programmatica di diritti furono il motore segreto del boom. Le cose sarebbero dovute cambiare all’inizio degli anni 60, con l’ingresso del Psi al governo e la nascita del centrosinistra. Non fu così. Qualche legge fu varata, come quella che vietava il licenziamento delle donne colpevoli di essersi sposate, ma le velleità iniziali furono sopite dal “rumore di sciabole” del 1964, il golpe minacciato più che tentato dal comandante dei carabinieri De Lorenzo con alle spalle il capo dello Stato Antonio Segni. A smuovere le acque e rendere possibile ciò che pochi mesi prima sarebbe stato inimmaginabile fu la grande rivolta operaia iniziata nel 1968 ed esplosa l’anno successivo. I socialisti e non i comunisti furono i più pronti a cogliere la richiesta di libertà e diritti che arrivava da quelle lotte. La strategia che Pci e Cgil avevano messo a punto in vista del rinnovo dei contratti del 1969 aveva come obiettivo un maggior controllo operaio sulla produzione.

Guardava soprattutto alla fascia rappresentata dagli operai specializzati, nucleo centrale e asse portante del sindacato nelle fabbriche, più che sugli operai dequalificati, spesso di fresca immigrazione del Sud, che furono invece il cuore della mobilitazione operaia. L’ “aristocrazia operaia” di qualche diritto, in virtù dell’alta specializzazione, poteva godere. Gli operai-massa no: volevano soldi e diritti, non “un nuovo modo di fare la produzione”. Il Psi era più sensibile a quei temi e fu più lesto a far propria la campagna sui diritti. L’uomo di punta era Giacomo Brodolini, ex azionista, sindacalista e ex vicesegretario della Cgil. Era stato lui a scrivere il documento di condanna dell’invasione dell’Ungheria poi firmato dal segretario Di Vittorio, che fu per questo costretto a una sorta di autocritica feroce e stalinista. Vicesegretario del Psi e poi del Psu, nato dall’effimera unificazione del Psi e del Psdi, deputato dal 1953 ed eletto senatore nel 1968, Brodolini aveva una visione complessiva delle riforme necessarie per portare la democrazia in quelle fabbriche nelle quali non era mai entrata. Nominato ministro del Lavoro nel dicembre 1968, destinato a rimanere in carica meno di 8 mesi prima di essere ucciso da un tumore, segnò una vera rivoluzione nelle relazioni industriali.

Marcò la distanza dai predecessori anche nei comportamenti personali. Mai un ministro aveva espresso così apertamente solidarietà ai braccianti in lotta, due dei quali erano stati uccisi dalla polizia ad Avola, o aveva passato la notte di Capodanno in una tenda, con gli operai che protestavano contro i licenziamenti. Consapevole del poco tempo che gli restava, Brodolini cercò di varare in tempi fulminei le riforme che aveva in mente. Rimodellò radicalmente il sistema pensionistico. Abolì le “gabbie salariali”, che differenziavano gli stipendi del Nord da quelli del Sud. Istituì una commissione nazionale per dar vita a uno “Statuto dei diritti dei lavoratori”, presieduta dall’allora giovanissimo Gino Giugni.

Ma il progetto, affermò poi lo stesso Giugni, era tutto di Brodolini, che morì l’11 luglio 1969, prima di vederlo approvato. Il nuovo ministro del Lavoro, il dc Carlo Donat-Cattin, dovette fronteggiare i tentativi degli industriali e delle loro sponde politiche nel governo e nella Dc di affondare lo Statuto ancora prima che vedesse la luce. Lo fece con la ruvidezza tipica dell’uomo. In Parlamento accusò senza mezzi termini la Fiat di operare “massicci licenziamenti di carattere politico e antisindacale”. Respinse al mittente le critiche allo Statuto “ispirate da una mentalità privatistica dei rapporti sindacali”. Le lotte operaie fecero il resto. Nel maggio 1970 lo Statuto fu approvato. Il Pci scelse di non votarlo pur senza bocciarlo. «Lascia ancora troppe armi al padronato», spiegò Pajetta. Il principale punto di dissenso era in realtà la decisione di non applicare le norme che vietavano il licenziamento senza “giusta causa” nelle aziende al di sotto dei 15 dipendenti. Non c’era solo il famoso art. 18 sui licenziamenti in quello Statuto.

Vietati l’uso di guardie private per la sorveglianza degli operai e i controlli audiovisivi. Regolamentate le perquisizioni all’entrata e all’uscita dalle fabbriche. Calmierati gli accertamenti per le assenze dovute a malattia o infortunio. Non era il socialismo ma la fine di un regime tirannico che aveva retto per due decenni. Il quotidiano del Psi, Avanti!, riprese nel sottotitolo il messaggio lanciato 12 anni prima da Di Vittorio: “La Costituzione entra in fabbrica”. Da allora i tentativi di ricacciare la Carta fuori da quei cancelli delle fabbriche dalle porte degli uffici sono stati continui, soprattutto a partire dagli anni 90 del secolo scorso, e alla fine vincenti. La resistenza della Cgil di Cofferati, che convocò a Roma la più grande manifestazione della storia italiana nel marzo 2002, fermò l’attacco del governo Berlusconi contro l’art. 18, sui licenziamenti senza giusta causa, ma 9 anni dopo il governo tecnico di Mario Monti, con Elsa Fornero ministra del Lavoro, ridusse drasticamente le funzioni di quel baluardo sostituendo in molti casi l’obbligo di reintegro con un indennizzo economico. Il colpo di grazia lo ha dato il jobs act di Renzi, nel marzo 2015.

Dopo aver più volte ripetuto che non c’era alcun bisogno di cancellare l’art. 18, l’allora premier e segretario del Pd si mosse in maniera opposta quando la Commissione europea reclamò “la prova d’amore” in cambio della concessione di flessibilità. Una campagna stampa mirata e astuta, del resto, aveva a quel punto già trasformato agli occhi di molti lo Statuto da garanzia di libertà e diritti costituzionali in privilegio degli occupati con il posto fisso a danno dei precari. Degli “anziani” a scapito dei giovani. Come sempre, la favola bugiarda partiva da una base di verità, salvo poi stravolgerla. Lo Statuto era stato in effetti pensato quando l’organizzazione del lavoro e gli assetti produttivi poggiavano su fondamenta molto diverse da quelle attuali, ancora compiutamente fordiste. A moltissimi lavoratori quelle norme non offrono davvero più alcuna protezione. Non è una buona ragione per togliere diritti a chi ancora ne ha. Sarebbe in compenso un ottimo motivo per mettere a punto un nuovo Statuto dei lavoratori. Adeguato ai tempi. Capace di far entrare la Costituzione anche oltre i recinti invisibili dei nuovi luoghi di lavoro .