Il giorno dopo, l’8 ottobre dell’anno scorso, i numeri del massacro erano ancora difettosi sulle prime pagine dei giornali. Si era già visto a quale grado di inimmaginabile atrocità si fossero abbandonati i macellai – miliziani e civili palestinesi – nel loro lavoro sui corpi vivi e sui cadaveri delle vittime, ma non era ancora definita la quantità di gente che nel giro di un paio d’ore diventava la materia passiva di quel selvaggio esperimento genocidiario. E così, sui frontespizi di quella stampa, erano i cento morti, i duecento, i duecentocinquanta. Un sovrappiù di mille avrebbe dovuto aggravare, giorni dopo, quella precaria contabilità.
Ma la scala di quegli orrori – senza precedenti, salvo risalire all’industria dello sterminio nazista – non diceva proprio tutto della maestosa e oscena portata simbolica dello spettacolo che andava in scena quella mattina di un anno fa. C’erano infatti, laggiù, anche i sopravvissuti dei Campi.

Quelli che, bambini, ottant’anni fa, avevano visto i propri genitori e i propri nonni salire in fumo dai forni della fabbrica sterminatrice: ottant’anni dopo, il 7 ottobre dell’anno scorso, avrebbero visto patire la stessa sorte ai propri figli e ai propri nipoti. Sterminati in quanto ebrei esattamente come, in quanto ebrei, furono sterminati i parenti di quei bambini fattisi vegliardi per chiudere gli occhi sul cerchio chiuso dello stesso orrore.
Il fatto che non si trattasse neppure dei discendenti degli sterminati ma a volte, appunto, addirittura degli stessi che erano sopravvissuti allo sterminio, gli orfani superstiti di quella mostruosa devastazione, è un pauroso dettaglio che faticava a fare capolino dalle cronache di quei giorni di un anno fa. Ma si sperava che – per chi si dava al commento di quella tragedia – il riproporsi della medesima, incommensurabile violenza sulla pelle già marchiata di un ebreo avesse il significato che aveva, il significato che era imperativo non trascurare e che invece finiva tutt’al più in qualche nota di passaggio routinariamente descrittivo. Perché questo è successo: è successo che la genuinità della “condanna” di quell’orgia sanguinaria, in via di indebolimento e dissipazione già ventiquattr’ore appresso, era maleficamente adulterata dall’atteggiamento speciale che ancora una volta riguardava l’assassinio degli ebrei.

Gente che non meritava di essere assassinata, questo no (o questo non sempre), ma gente che dopotutto è normale e ricorrente che sia assassinata. In una “normalità” che non cessa di essere tale neppure quando la violenza antisemita ammonta a quei numeri e assume quelle fattezze. Erano vecchi, erano uomini, donne, ragazzi, bambini quelli torturati e uccisi, ma questo non bastava a tener viva troppo a lungo quella condanna e a reclamare che fosse resa loro giustizia. Perché erano innanzitutto un’altra cosa: erano ebrei.

Si spiega soltanto così – e in nessun altro modo – il fatto che non già la reazione israeliana, che ancora non c’era, bensì proprio il pogrom, facesse immediatamente incurvare all’insù le statistiche delle aggressioni antisemite nell’Europa che fu della Shoah. Era il lato più disinibito e fattivo di una medesima discriminazione, quella che allarga le braccia – pur sconsolata – davanti alla caccia all’ebreo e quella che vi partecipa: l’una e l’altra identicamente fondate sullo stesso protocollo disumanizzante.
Ormai a quasi un anno da quel giorno le storie personali degli uccisi sono state impacchettate nell’indistinto riservato a questa categoria diversamente meritevole: persone che non hanno scelto di nascere con il marchio che ne giustifica la discriminazione mentre sono in vita, e delle quali è normale dimenticarsi quando sono uccise. Perché è ancora possibile sperare che gli ebrei non siano uccisi; ma ancora non è possibile sperare che, se sono uccisi, non si consideri che questo debba “purtroppo” appartenere al loro destino possibile.