I primi messaggi arrivano a massacro in corso: “Hanno conquistato la base di Erez. Soldati uccisi, alcuni rapiti. A Yad Mordechai si combatte porta a porta”; “Morti, feriti. Combattimenti in tutti i kibbutzim e moshavim della zona”.
Chi li manda non sa ancora che si tratta di quello, di un massacro genocidiario condotto da migliaia di miliziani e civili palestinesi che stanno fucilando, sgozzando, facendo a pezzi, bruciando vivi milleduecento tra uomini, vecchi, donne, bambini. La rappresentazione minuziosa dello scempio arriva di lì a poco per opera di chi lo sta compiendo, con gli smartphone e le body cam delle belve del 7 ottobre che regalano al mondo le immagini e i video dei corpi straziati, dei pali di ferro infilati negli occhi dei cadaveri, delle ragazze trascinate nella polvere con il sangue che sbroda dai genitali, delle stanze dei bambini assassinati dopo l’assassinio, davanti a loro, dei loro genitori. Ma offre in visione qualcosa in più il reportage autoprodotto da quei selvaggi: la loro gioia mentre si esercitano in quelle violenze di insuperata atrocità.

Il massacro e il proclama negazionista

Chi riceveva quei primi messaggi mattinieri avvertiva solo oscuramente ciò che avrebbe compreso appieno qualche ora più tardi. E cioè l’orrore che tornava a presentarsi, ma con un tratto inedito che lo faceva spaventosamente diverso: la festa degli assassini sui corpi vilipesi e coperti di deiezioni, le risate del branco circostante mentre il sodale accoltella la ragazza che sta stuprando, i canti e i balli sulle pozze di sangue delle famiglie sterminate. E proprio durante quel tripudio, proprio quando prendeva a delinearsi il profilo sfacciato e gioiosamente rivendicativo di quell’orrore, già cominciava a diffondersi il proclama negazionista. I bambini non erano decapitati, ma soltanto sgozzati. Gli assassinati e i rapiti non erano davvero civili, erano anche “soldati”. Un enorme e solerte esercito di “garantisti per il 7 ottobre” si adunava a reclamare prove solide di quelle pretese violenze, a contestare la veridicità di un racconto che indebitamente mostrificava il palestinese e inventava l’ultima puntata dell’inesistente persecuzione ebraica.

La strage e le colpe allo stato colonialista

E mentre la sabbia del deserto del Negev era ancora pregna del sangue di centinaia di ragazzi, mentre ancora saliva il fumo dei corpi degli ebrei inceneriti, mentre negli obitori ancora non era possibile dare un nome a degli esseri umani trasformati in cose irriconoscibili, già cominciava a dispiegarsi il protocollo accusatorio contro lo Stato colonialista, la realtà usurpatrice che affastellava i numeri esagerati di una contabilità gratuitamente macabra solo per organizzare e giustificare l’imminente punizione collettiva del popolo oppresso. Non c’erano, tutti quei morti, anzi semmai Israele se li era fatti da sé; la notizia inveritiera del bambino messo nel forno destituiva di verità la notizia di qualsiasi bambino ucciso; quella madre era stata solo giustiziata, non sventrata. E questo doverosissimo riordino della realtà delle cose fioriva poi nell’oratoria del reporter di guerra che evocava obliquamente la possibilità della messinscena, e nell’ordinanza che, in nome del popolo italiano, indugiava sull’ipotesi che il termine “femminicidio” potesse risultare “svilito” se adoperato per le donne ebree uccise il 7 ottobre.
All’orizzonte, lungo una linea di terrificante prevedibilità, prendeva forma l’apoftegma che avrebbe dato il colpo di grazia alle possibilità di verità e di giustizia per le efferatezze del Sabato Nero: non venivano dal nulla, avrebbe spiegato il Segretario Generale dell’Onu.

Il giorno dopo i numeri del massacro erano ancora difettosi sulle prime pagine dei giornali. Si era già visto a quale grado di inimmaginabile atrocità si fossero abbandonati i macellai nel loro lavoro sui corpi vivi e sui cadaveri delle vittime, ma non era ancora definita la quantità di gente che nel giro di un paio d’ore diventava la materia passiva di quel selvaggio esperimento genocidiario. E così, sui frontespizi di quella stampa, erano i cento morti, i duecento, i duecentocinquanta. Un sovrappiù di mille avrebbe dovuto aggravare, giorni dopo, quella precaria contabilità.
Ma la scala di quegli orrori – senza precedenti, salvo risalire all’industria dello sterminio nazista – non diceva proprio tutto della maestosa e oscena portata simbolica dello spettacolo che andava in scena quella mattina di un anno fa. C’erano infatti, laggiù, anche i sopravvissuti dei Campi. Quelli che, bambini, ottant’anni fa, avevano visto i propri genitori e i propri nonni salire in fumo dai forni della fabbrica sterminatrice: ottant’anni dopo avrebbero visto patire la stessa sorte ai propri figli e ai propri nipoti. Sterminati in quanto ebrei esattamente come, in quanto ebrei, furono sterminati i parenti di quei bambini fattisi vegliardi per chiudere gli occhi sul cerchio chiuso dello stesso orrore.
Il fatto che non si trattasse neppure dei discendenti degli sterminati ma a volte, appunto, addirittura degli stessi che erano sopravvissuti allo sterminio, è un pauroso dettaglio che faticava a fare capolino dalle cronache di quei giorni. Si sperava che – per chi si dava al commento di quella tragedia – il riproporsi della medesima, incommensurabile violenza sulla pelle già marchiata di un ebreo avesse il significato che aveva, il significato che era imperativo non trascurare e che invece finiva tutt’al più in qualche nota di passaggio descrittivo. Perché questo è successo: è successo che la genuinità della “condanna” di quell’orgia sanguinaria, in via di indebolimento già ventiquattr’ore appresso, era maleficamente adulterata dall’atteggiamento speciale che ancora una volta riguardava l’assassinio degli ebrei. Gente che non meritava di essere assassinata, questo no (o questo non sempre), ma gente che dopotutto è normale vedere assassinata. Erano vecchi, erano uomini, donne, ragazzi, bambini i milleduecento torturati e uccisi, ma questo non bastava a tener viva troppo a lungo quella condanna e a reclamare che fosse resa loro giustizia. Perché erano innanzitutto un’altra cosa: erano ebrei.
Si spiega soltanto così il fatto che non già la reazione israeliana, che ancora non c’era, bensì proprio il pogrom, facesse immediatamente incurvare all’insù le linee statistiche delle aggressioni antisemite nel mondo intero. Era il lato più disinibito e fattivo di una medesima discriminazione, quella che allarga le braccia – pur sconsolata – davanti alla caccia all’ebreo e quella che vi partecipa: l’una e l’altra identicamente fondate sullo stesso protocollo disumanizzante.

Ormai a quasi un anno da quel giorno le storie personali degli uccisi sono state impacchettate nell’indistinto riservato a questa categoria diversamente meritevole: persone che non hanno scelto di nascere con il marchio che ne giustifica la discriminazione mentre sono in vita, e delle quali è normale dimenticarsi quando sono uccise. Perché è ancora possibile sperare che gli ebrei non siano uccisi; ma ancora non è possibile sperare che, se sono uccisi, non si consideri che questo debba “purtroppo” appartenere al loro destino possibile.

I deportati del 7 ottobre erano i trofei

Prima di sparire nei budelli e nei tunnel di Gaza, i deportati del 7 ottobre erano i trofei che i miliziani e i civili palestinesi rammostravano alla folla in tripudio. Trascinati nella polvere, caricati sulle jeep e sulle moto, issati con le ossa spaccate e con le mani mozzate sui cassoni dei pick up, gli ostaggi passavano tra i gioiosi filari di spettatori che li riempivano di sputi e sassate lungo il percorso che li avrebbe condotti a quell’uscita dalla vita di prima.
Ovunque fuori da Israele – da New York a Roma, da Berlino a Sidney, da Parigi ad Amsterdam – l’identità degli ostaggi annichilita nelle prigioni dei macellai era vilipesa nel rituale pubblico e impunito dei volantini strappati. Ricordare l’esistenza degli ostaggi e reclamarne la liberazione erano i gesti inammissibili, l’oltraggio che contestava il diritto resistenziale dei sequestratori e poneva in discussione la giustizia calata sui rappresentanti della stirpe usurpatrice. Era scomodamente inappropriata la presenza dei manifesti con le facce degli uomini, donne e bambini rapiti quel giorno e da dimenticare da quel giorno. Per questo era lecito strapparli. Per questo era normale che i militanti di Amnesty International ritenessero di “rimuoverli e deporli nel cestino”. Perché era quello il posto buono per il carico residuo del pogrom: la spazzatura.

Sparivano poi gli ostaggi, immeritevoli di qualsiasi menzione, nelle decine di pagine dei ricorsi sudafricani dedicate alle richieste di incriminazione di Israele. La pace a Gaza doveva sopportare la permanenza di quei sequestrati sotto ai piedi dei parlamentari pacifisti in trasferta a Rafah, i dimostranti bardati d’arcobaleno che passeggiavano sopra i tunnel, pagati con i soldi della cooperazione internazionale, in cui languivano i rapiti. La pace di Gaza, soprattutto, doveva retribuire il diritto dei rapitori di mantenere il loro giogo aguzzino sugli ostaggi di cui distribuiva i video prima di giustiziarli. E nelle tante bozze di accordo per il cessate il fuoco, per la tregua, per il ritiro dell’esercito da Gaza doveva essere mantenuta la facoltà dei rapitori di restituire gli ostaggi a mandate, a blocchi, suddivisi in base all’età e al vigore fisico, a ricordo di qualche più antica pratica selettiva. E a nessuno veniva puzza di riconoscere a quale peso decidesse di sottoporsi il Paese che accettava la scaletta di quegli accordi, il modulo di pace che procrastinava addirittura di mesi la liberazione dei meno meritevoli. Una disponibilità ripagata con il colpo alla testa di Hersh Goldberg e degli altri cinque quando l’esercito stava per salvarli.

Nelle mozioni parlamentari degli ordinamenti democratici impegnati a diffondere i dati falsi sulla carestia di Gaza, così come nelle risoluzioni dell’Onu per la tutela dei civili quando sono uccisi da Israele, non quando sono usati come sacchi di sabbia dai tagliagole del 7 ottobre, il riferimento agli ostaggi ricorreva nel comma stracco che ne chiedeva la liberazione come si dice buongiorno al panettiere e distinti saluti nel reclamo alle poste. E quando qualche “esperto” delle Nazioni Unite metteva insieme la sua “Anatomia di un genocidio” – l’ennesima carrellata di notizie fake – spiegava che il rapporto non poteva occuparsi degli ostaggi perché essi “esulavano dall’ambito geografico” del mandato onusiano. Il perimetro dell’investigazione, evidentemente, comprendeva le aree di Gaza in presenza dei civili uccisi da Israele, non le stesse aree in presenza degli israeliani torturati e uccisi dai terroristi palestinesi.
Quanti ancora siano in vita non si sa. Uno aveva un anno, quando l’hanno preso. Sputavano anche sulla sua immagine, nell’Italia che fu delle leggi razziali, nell’Europa che fu della Shoah e nelle università americane in cui inneggiare allo sterminio degli ebrei non è necessariamente improprio perché dipende dal contesto.

Se per alcuni, non pochi, la guerra di Gaza altro non è che la somma dei crimini perpetrati da Israele, per la gran parte degli osservatori occidentali quell’iniziativa militare ha quanto meno rappresentato un grave errore. Alternativamente, la manifestazione di furiosa protervia del Paese che rispondeva alla cieca all’aggressione del 7 ottobre o la deliberata decisione di punire collettivamente il popolo da cui venivano i tremila massacratori che avevano sventrato lo Stato Ebraico.
È la dimostrazione drammaticamente plateale del distacco, dell’inaderenza, della mancanza di intelligenza delle cose di cui quegli osservatori hanno dato prova dall’inizio del conflitto. Non necessariamente in malafede, non hanno capito che cosa era successo in quei giorni di un anno fa. Era successo che Hamas aveva deciso di costringere Israele a distruggere Gaza. Aveva stabilito le condizioni della guerra facendo di Gaza un campo di guerra, con due milioni di civili posti a guarnigione dei tunnel e degli arsenali distribuiti nei condomini, nelle scuole, negli ospedali, nelle moschee, nelle chiese e nelle strutture della cooperazione internazionale della Striscia.
La distruzione di Gaza era il prezzo che Hamas intendeva far pagare a Israele, e gli israeliani hanno deciso di pagarlo. Vedendo le immagini dei miliziani e dei civili palestinesi che uccidevano i bambini davanti ai loro genitori, e poi si filmavano mentre bevevano le bibite prese dalle dispense di quelle cucine allagate di sangue, gli israeliani hanno deciso che avrebbero accettato le condizioni di guerra stabilite da Hamas e che avrebbero pagato il prezzo che ne veniva. Le conseguenze sulla popolazione civile palestinese, cioè l’elemento funzionale del disegno distruttivo di Hamas, sarebbero state spaventose. Ma Israele avrebbe dimostrato di poter combattere, e di voler vincere, la guerra di cui Hamas aveva stabilito le condizioni.

Non era l’errore che i presunti esperti occidentali addebitavano alla cecità guerrafondaia di Israele. Era l’orrore che Israele decideva di guardare in faccia.
Quella guerra – che non era la guerra di Gaza, ma la guerra di Hamas – si combatteva per procura anche altrove, e anche altrove Israele accettava di combatterla alle condizioni altrui. Sui giornali, infatti, nei dibattiti parlamentari, nelle aule della giustizia internazionale, nelle università della caccia all’ebreo, nelle piazze “pacifiste”, nei Pride Judenfrei, la guerra di Hamas che Israele aveva deciso di combattere alle condizioni di Hamas diventava il genocidio, diventava lo sterminio per fame, diventava il perfezionamento sanguinario dell’usurpazione di cui Israele era responsabile da sempre e per il solo fatto di esistere. Un corteo di Stati-Canaglia, capitanato dalle democrazie delle impiccagioni e delle bambine infibulate, e ingrossato da alcuni governi europei militanti dal fiume al mare, andava agitando quelle parole – “genocidio”, “carestia”, “punizione collettiva” – non perché servissero a tutelare la popolazione palestinese, ma perché erano le definizioni propagandistiche adatte ad ammantare la verità della guerra di Hamas e a trasfigurarla goebbelsianamente nella colpa ebraica. C’era bisogno di genocidio e c’era bisogno di carestia, e quando non c’erano né il genocidio né la carestia occorreva dire che c’erano comunque perché era inammissibile che Israele combattesse e vincesse una guerra, la guerra di Hamas: era necessario che perpetrasse il crimine incancellabile e inemendabile. Il crimine che consente, anzi impone, di negare ogni diritto a chi se ne rende responsabile. Lo stesso diritto all’esistenza. Soprattutto: il crimine che rende magari non giustificabile, ma, come si spiega con vergognoso sussiego, ampiamente “comprensibile”, la spaventosa fiammata antisemita che da un anno non accenna a placarsi. E che denuncia ancora una volta, ma questa volta in modo tanto più oscenamente scenografico, come anche quello, anche l’antisemitismo, dopotutto trovi causa nella colpa di coloro che lo subiscono. Perché, come dice una apprezzata consulente del Segretario Generale delle Nazioni Unite, gli ebrei stanno facendo ai palestinesi ciò che i nazisti hanno fatto agli ebrei.
E si chiude così il cerchio della guerra di Hamas, con un cartello che raffigura una novantacinquenne sopravvissuta ad Auschwitz con il marchio “sionista” al posto della stella gialla.

Un anno dopo – e siamo a questi giorni – sarebbe stato addebitato a Israele di aver aperto “un nuovo fronte di guerra”, vale a dire il fronte del Nord oltre il confine libanese, presidiato da un esercito intitolato a Dio e dotato di duecentomila missili e razzi puntati contro i civili israeliani. Il fatto che il fronte non fosse nuovo, e che non l’avesse aperto Israele, ovviamente sfuggiva all’occhio inquirente della pubblica accusa internazionale. Ma la realtà difficile da contestare è che la settimana prossima, il 7 ottobre, sarà passato esattamente un anno da quando i miliziani filo-iraniani cominciavano a lanciare ordigni sui civili israeliani, sui villaggi e sulle fattorie della Galilea, incenerendola e spopolandola. Un anno di missili lanciati a migliaia da quella linea di confine, quell’orlo meridionale del Libano che, per la comunità internazionale, diventa un “fronte” di guerra quando Israele decide di reagire e invece non è un fronte, non è nulla, non esiste, non suscita nessun timore di escalation quando per dodici mesi è sorvolato dagli ordigni diretti a colpire la popolazione civile dello Stato Ebraico.

Le norme del diritto internazionale, evocate nelle requisitorie parlamentari contro l’oltranzismo israeliano che vìola con modalità terroristiche la privacy dei cercapersone, non sono scomodate quando i mandanti dei proxy libanesi e yemeniti bombardano civili con poco titolo di lamentela, civili troppo gravati di colpa colonialista per poter ambire alle istanze protettive così frequenti, se riguardano altri, nei talk show pacifisti di ogni ordine e grado e nell’eloquio del geopolitologo secondo cui (lo ha detto davvero, non è una vignetta) Hezbollah dimostra “più umanità di Israele”.
A un anno dal 7 ottobre, e anche su quest’altro fronte di una guerra che esso non ha cominciato, appare sempre più vuota e retorica la tiritera sul diritto dello Stato Ebraico di difendere la propria esistenza. Una formula verbale, e una sostanziale bugia, se è vero come è vero che dal Sabato Nero in qua non c’è stata una iniziativa israeliana, neppure una, che non abbia prodotto la più viva condanna e la più diffusa esecrazione. Perché a Israele quel diritto è riconosciuto in teoria (e nemmeno sempre) a patto che si astenga dall’esercitarlo praticamente in qualsiasi modo. Perché è lo Stato degli ebrei, e non è ancora tollerato che gli ebrei ne abbiano uno e siano disposti a difenderlo.