Si sa che Charles Dickens è morto il 9 giugno 1870, accasciato sulle pagine dell’incompiuto Mistero di Edwin Drood, quello che pochi sanno è che ha rischiato di morire qualche anno prima, nel 1865, nello stesso giorno. Il 9 giugno 1865 lo scrittore inglese stava viaggiando nel Kent, in direzione Londra, e il suo treno rimase coinvolto nello spaventoso incidente ferroviario di Staplehurst: quasi tutte le carrozze del treno caddero nel fiume Beult. Quella dove viaggiava Dickens fu una delle poche a rimanere sui binari, lo scrittore prima si adoperò nel prestare soccorso ai feriti e, dopo corse a salvare una sua opera in parte ancora inedita allora, Il nostro comune amico.
Il nostro comune amico è l’ultimo romanzo pubblicato in vita da Dickens, «un capolavoro assoluto, d’invenzione come di scrittura» secondo Italo Calvino, certamente una delle sue opere più disperate. Nelle vicende del protagonista, John Harmon, coinvolto in un matrimonio obbligato e in uno scambio di persona, generatore di numerosi colpi di scena, Dickens giunge a uno dei luoghi più cupi della sua riflessione sociale, con la consapevolezza della fine delle «grandi speranze» nel miglioramento della società e il fallimento della classe borghese. Il nostro comune amico è anche l’ultima e definitiva prova della capacità di Dickens nel ritrarre un’intera società con una simile finezza di dettagli e una prosa piana, capace di coordinare plot complessi che molto spesso nascono dalla sua vita e dalle sue esperienze.
L’autore inglese Peter Ackroyd ha scritto un poderoso volume sullo scrittore nato a Portsmouth nel 1812, recentemente pubblicato da Neri Pozza, dove riannoda tutti i fili che collegano biografia e finzione romanzesca. Dalle pagine di Ackroyd emerge come Dickens fosse uno dei due maggiori rappresentanti dell’età vittoriana: l’altra è niente meno che la regina Vittoria che infatti lo inviterà a Buckingham Palace per un colloquio, durante il quale lo scrittore, nonostante la malattia, sarà costretto dal protocollo a restare in piedi: «fu così – scrive Ackroyd – che conversarono i due più grandi rappresentanti dell’età vittoriana, come se non fossero consapevoli del posto che occupavano nella storia del loro tempo».
La biografia è un ottimo strumento per ripercorrere l’intera opera di Dickens, si ritrovano qui le notizie biografiche che saranno il lievito delle sue storie («Solo Fatti dovete insegnare a questi ragazzi. Nella vita non c’è bisogno che di Fatti.», recita infatti uno dei suoi incipit più memorabili, quello di Tempi difficili), la nascita in una famiglia tutto sommato benestante destinata però alla decadenza e alla povertà, il lavoro da bambino nella fabbrica di lucido da scarpe, caldeggiato dai genitori («un oscuro complotto per precipitarlo nel mondo» scrive Ackroyd citando Oliver Twist) e l’arresto del padre John per debiti, in tempi in cui «un debitore insolvente veniva reputato quasi alla stregua di un vero criminale».
E poi, c’è la Londra ottocentesca («non c’è niente a Londra che non sia curioso»), la sua nebbia, le tenebre sinistre che portavano a far correre la fantasia e il grande fiume Tamigi dall’aspetto cupo, «carico di forme indistinte e terrificanti». Vladimir Nabokov ha scritto, parlando di Casa desolata, che «lo studio dell’impatto sociologico o politico della letteratura dev’essere stato escogitato soprattutto per quelli che, per temperamento o educazione, sono immuni dalla vibrazione estetica della vera letteratura, per quelli che non sentono il brivido rivelatore tra le scapole».
L’interpretazione dei romanzi di Dickens non deve essere basata solo sul valore sociale, sempre foriero di insegnamenti, ma anche riconoscendo la «vibrazione estetica» della sua scrittura e la sua capacità demiurgica nel plasmare trame così articolate e complesse. Se si riesce a utilizzare questo doppio sguardo, si comprenderanno in maniera ancora più profonda le sue opere, simbolo della fusione perfetta, come ha scritto Pietro Citati, tra «il più folle riso e la più imperterrita discesa nelle tenebre».