"La lettura felice"
A colloquio con Proust sull’arte della lettura: il libro di Guido Vitiello
Guido Vitiello si immedesima con lui al punto di alternare le sue pagine con quelle dell’autore della Recherche: la proustologia continua a occupare intere biblioteche
Ancora Proust. Ancora la Recherche e ancora oltre la Recherche. Questo mare di parole e pensieri che non finisce di alzarsi e abbassarsi lasciando ogni volta sulla spiaggia qualche conchiglia trasparente.
Ancora dunque un bellissimo saggio, che poi non è un saggio letterario in senso classico ma diremmo una meditazione – che è insieme studio e vita vissuta – esattamente come nella Recherche (che come i proustiani sanno è anche un’enciclopedia culturale).
Insomma un proustiano incallito, perché il “proustismo” è un vizio. Guido Vitiello, intellettuale ben noto ai lettori del Foglio, ha scritto “La lettura felice” (Il Saggiatore) con un sottotitolo che non deve sfuggire, “Conversazioni con Marcel Proust sull’arte di leggere”, giacché Vitiello parla con Proust più che di Proust, si immedesima con lui al punto di alternare le sue pagine con quelle dell’autore della Recherche e spesso – se queste ultime non fossero in caratteri blu scuro – non distingueresti chi dei due sta parlando.
L’escamotage grafico è una brillante trovata che sta a indicare non tanto l’adesione (per certi versi l’immedesimazione) dell’autore con Marcel Proust ma, ci pare, a dimostrare quanto questo sia in un certo senso un po’ tutti noi, fotografati in questo o quel momento specifico: alzi la mano chi – leggendo Proust – non si sia ritrovato in una situazione, in un pensiero, in un dialogo.
Come abbia fatto Proust a fissare su carta, e per l’eternità, tanti pensieri enormi quanto minimi dettagli della vita è un mistero che da cent’anni viene studiato e infatti la proustologia è in grado di occupare intere biblioteche.
Eppure si ha come l’impressione che la ricerca sulla Ricerca non finirà, proprio perché ciascuno pesca la sua perla privata sepolta nei fondali di quelle migliaia di pagine. Tra le altre (il libro è scritto da un erudito), Vitiello ha un’intuizione assolutamente condivisibile, e cioè l’idea che Alla ricerca del tempo perduto sia anche – anche, eh – un romanzo poliziesco, insomma un giallo, d’altronde dichiarato già nella parola-chiave, “ricerca”.
Ecco quindi che Charles Swann, che è un po’ la pietra angolare del romanzo, viene accostato a Hercule Poirot «per il modo di comparare le testimonianze che si stratificano su uno stesso episodio, un metodo sul quale innesta, come la sua collega Miss Marple, qualche occasionale trucco teatrale».
Swann che si apposta sotto casa di Odette è certamente un detective alla Sam Spade, per non dire del narratore che va a caccia di prove sui “peccati” di Albertine. Ma tutta la Recherche è piena di sospetti, dubbi, doppiezze, ambiguità, bugie, incongruenze.
Dopodiché c’è “il piacere della lettura” che si ricava non solo dall’opera maggiore del Nostro ma anche dagli scritti precedenti nei quali la squisitezza delle frasi anticipa in modo finissimo il grande romanzo.
Ed è per così dire inevitabile che la tarantola che ha morso Vitiello lo induca a ricordare (che verbo sintomatico!): «I giardinetti erano appezzamenti d’erba un po’ spelacchiati all’ingresso di qualche casa nei dintorni di Terracina che i miei genitori prendevano in affitto per agosto; le cene alle quali ero così solennemente convocato erano fatte il più delle volte di cartoni di pizza della rosticceria; e se arrivava in lontananza il suono delle campane, erano campane registrate su nastri e diffuse per megafono, come l’annuncio monocorde e altalenante dell’arrotino…». E non sai più se è Vitiello a Terracina o Marcel a Combray, dove anche lì suonavano le campane, alla domenica.
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