A cosa servono i pentiti e cosa gli viene chiesto: la verità o nuovi arresti?

Decine tra Procuratori, Sostituti Procuratori, giornalisti allineati e politici di scorta ci hanno ammonito in questi giorni a non scandalizzarci per la liberazione di Giovanni Brusca, che ha saldato, con 25 anni di carcere (non duro), la pena inflittagli per “non mi ricordo” quanti omicidi (en passant, anche un bambino), ma stimabili più o meno in 150. E si capisce la soddisfazione dei Pm (e dei giornalisti allineati e politici di scorta) che hanno fatto carriera grazie agli arresti che Brusca ha reso possibile, meno digeribile è il giudizio del Procuratore Antimafia, Cafiero de Raho, secondo cui si sarebbe trattato di «una vittoria dello Stato». Poteva anche essere meno enfatico, tutto sommato! Il canovaccio è comunque sempre lo stesso: i testimoni a contratto (questo sono i “pentiti”) sono sgradevoli, moralmente discutibili, ma essenziali. E sono indispensabili per battere le Mafie.

Con la stessa pacata sicurezza però, dopo 30 anni e forse centinaia di “pentiti”, gli stessi Procuratori, Sostituti Procuratori (giornalisti allineati e politici di scorta), ad ogni tentativo di rendere meno sadica la tortura del 41 bis, ci ammoniscono che “la Mafia non è morta, è viva e vegeta, e non bisogna abbassare la guardia”. E allora – viene da chiedersi – a che cosa sono serviti tutti questi “pentiti” ben pagati? La “vittoria” dello Stato si risolve in definitiva nell’assicurare una tranquilla pensione a Giovanni Brusca? Da parte mia, non voglio negare che i “pentiti” siano utili, e nemmeno che molti altri ordinamenti se ne servano. Si tratta però di capire che cosa ad essi viene davvero chiesto, in cambio di sontuosi vantaggi processuali ed economici: la verità? O semplicemente altri arresti (e i progressi di carriera che spettano a chi li esegue). Sembra un sofisma, ma non lo è. Ce lo ha insegnato il caso Tortora. Anche lì i “pentiti” erano la novità che poteva consentire di sgominare la terribile Nco di Raffaele Cutolo, ma ad essi non si chiedeva la “verità”, soltanto “arresti”, e magari eccellenti. Il resto è storia.

Il difetto – come sempre – sta nel manico. La speciale attenuante ex art. 8 dl 152/91 prevede rilevantissimi sconti di pena (e altri vantaggi) a chi aiuti “concretamente” gli inquirenti a raccogliere “elementi decisivi” per la ricostruzione dei fatti, e per la individuazione o la cattura degli autori dei reati. Immaginate però quale può essere il dramma di chi vorrebbe assicurarsi tutto questo ben di Dio, ma non ha magari niente di aggiungere a tutto quanto hanno già detto le centinaia di pentiti che affollano le località protette! O desiste, e si tiene il suo ergastolo al 41 bis… O si inventa qualcosa. Tanto – penserà – i Pm sono di bocca buona e, pur di arrestare, non vanno troppo per il sottile. Vero che c’è un’altra strada (una “terza via” non manca mai), e la raccontò un pentito che chiameremo “Procopio”, a proposito di un altro che chiameremo invece “Cesare”. Ebbene Procopio disse che, quando militavano insieme in un clan camorrista dell’hinterland napoletano, Cesare a un certo punto cominciò a fare cose strane. Commetteva e, soprattutto, commissionava omicidi che non avevano ragione né senso. «Allora – dice Procopio – capimmo che aveva intenzione di pentirsi». E preparava il suo canestro di arresti da fornire agli inquirenti.

Certo, se ci fosse un Giudice davvero terzo, tutto questo non sarebbe possibile. Un Giudice che analizzasse e valutasse la prova con lo scrupolo necessario. Ma in un Paese in cui l’unicità delle carriere dei magistrati, invece di ancorare il Pm alla cultura della giurisdizione, ha solo finito col trascinare il Giudice verso la cultura poliziesca che pervade irrimediabilmente le Procure dell’intera Repubblica, il famoso Giudice di Berlino non si distingue quasi più dall’ago nel pagliaio. Nemmeno la Corte di Cassazione, zeppa di ex Pm, che si è distinta in questi anni per travisare, a vantaggio delle Procure, quelle poche norme garantiste lasciate intatte da Parlamenti che, quanto a loro, cercavano il consenso riducendo le garanzie. Quel che forse è peggio, è che più o meno tutto quanto oggi sappiamo delle Mafie – in assenza di vere indagini – ci viene dalle bocche dei pentiti.

Non solo i nomi, ma anche il contesto e le dinamiche criminali. Notizie fornite con l’esigenza di stupire, di fornire a tutti i costi quegli “elementi decisivi” capaci di cambiare la vita. Non so perché (non è vero, lo so) mi viene in mente l’annotazione (ricordata da Sciascia e credo anche da Manzoni) del giudice Giovan Battista Sacco nel fascicolo processuale di Caterina Medici, bruciata al rogo come strega nel 1617 a Milano. Egli segnalava che la stessa imputata, sotto tortura, aveva rivelato che tutte le streghe hanno la pupilla dell’occhio più bassa e più profonda delle altre donne. Con ciò indicando un segno di riconoscimento da tener ben presente nei casi futuri. Chissà quante altre sventurate hanno subito il rogo per colpa delle loro pupille.