Non c’è solo il divieto degli smartphone nella famosa circolare di Valditara del 12 luglio scorso. Al termine del documento si aggiunge la raccomandazione di “accompagnare la notazione delle attività da svolgere a casa sul registro elettronico a quella sul diario”, per evitare l’utilizzo di dispositivi anche nel momento in cui si visionano i compiti (saranno trenta secondi?) e agevolare “l’acquisizione dell’autonomia nella gestione degli impegni scolastici”.

L’indicazione del diario potrà avere qualche buon frutto per l’autonomia organizzativa dei più piccoli, ma le conseguenze prodotte dall’introduzione del registro elettronico sono altre e ben più rilevanti. Della questione si sono occupati recentemente – tra gli altri – i pedagogisti Giuseppina D’Addelfio e Marcello Tempesta, rispettivamente dell’Università di Palermo e del Salento, con una ricerca pubblicata su “Pedagogia oggi”. “Il registro elettronico – scrivono – non è un elemento neutro, ma è portatore di una razionalità interna che incide sui processi e finisce per influenzare i protagonisti”. Il primo grande aspetto che emerge è proprio l’ansia, che lo strumento contribuisce a esasperare. Nel campione esaminato da D’Addelfio e Tempesta (312 questionari di studenti relativi alla secondaria di primo grado, 362 di genitori, 85 di docenti) circa l’80% dei ragazzi si dice “in ansia o agitato” quando attende il caricamento di una valutazione, mentre il 63% dichiara di controllare il registro elettronico più volte al giorno. Qualcuno lo definisce “un’ossessione” e scrive che addirittura “crea dipendenza”.

C’è una questione ancora più rilevante: l’utilizzo dello strumento – con il continuo e ossessivo legame con l’elemento numerico – rischia di modificare la concezione stessa della valutazione, portando la scuola italiana a fare gravi passi indietro rispetto al passato. In proposito, i due studiosi sottolineano come la cultura valutativa negli ultimi decenni abbia compiuto “un faticoso e ancora incompiuto processo di transizione da una logica di controllo, di tipo fondamentalmente misurativo, ad una logica di sviluppo, di tipo più ampiamente formativo”. Sono caduti, per fortuna, alcuni falsi miti come l’oggettività della valutazione, il primato della quantificazione, il voto come unico codice valutativo, la valutazione come semplice media aritmetica. Sono passi avanti che però un certo uso dello strumento elettronico rischia oggi di vanificare, almeno in parte.

Vi è il rischio – si chiedono D’Addelfio e Tempesta – che un uso ‘ingenuo’ e semplicistico del registro elettronico contribuisca ad un inconsapevole ritorno al passato”? Decisamente sì. E la colpa non è della “macchina”, ma – come sempre – dell’uso che se ne fa. Un esempio: nei software che le scuole utilizzano è possibile inserire parti narrative, che potrebbero descrivere le ragioni del voto e offrire una maggior chiarezza sul senso della valutazione. Sono utilizzate? Quasi mai. Attenzione però, perché la questione non si limita – come si potrebbe pensare – alla “pigrizia” degli insegnanti. Certo, per questi ultimi la valutazione discorsiva è un’ulteriore fatica e apprezzano il registro perché “semplifica e velocizza” (solo il 22% di loro ritiene insufficiente un riferimento solo numerico); il fatto è che anche gli studenti apprezzano la sintesi e anzi ritengono “facile, comodo e utile” che la valutazione derivi da una media aritmetica calcolata automaticamente e per molti di loro questo è garanzia di “trasparenza, correttezza e imparzialità” (solo il 6% non approva).

E così, già dalle medie e ancor più alle superiori, si trascorre il tempo a visualizzare continuamente il tondino della home dell’app che calcola la media aritmetica di tutte le valutazioni, come un continuo frullatore di numeri. Un malinteso principio di equità, che l’aritmetica sembra tutelare, finisce così per scoraggiare quella che dovrebbe essere davvero la valutazione: un’ulteriore occasione formativa. La macchina eroga numeri con continuità e immediatezza, e noi con quei numeri finiamo per identificarci. L’esatto contrario di ciò che dovrebbe accadere in un contesto educativo.

Pino Suriano

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