La sparata su Taiwan è una gaffe di Biden, che quando parla senza leggere il gobbo può dir di tutto, o si tratta invece di una provocazione studiata a tavolino dalla Casa Bianca alla vigilia di un viaggio del presidente degli Stati Uniti in Oriente? Rispondendo a un giornalista che l’ha anche incalzato per capire se voleva davvero dire quel che ha detto, Biden ha dichiarato piatto piatto che Washington è pronta a usare la forza per difendere Taiwan e che ci sono lavori in corso (se diplomatici o militari non l’ha chiarito) per impedire alla Cina di invadere Taiwan.

Frasi incendiarie e pericolosissime in un momento in cui la guerra in Ucraina sembra voler durare anni, Putin non ha una via aperta per ritirarsi senza perdere la faccia (e il potere in Russia) e nessuno risulta a oggi in grado di offrirgli una via di fuga dal vicolo cieco in cui s’è cacciato. Prove di terza guerra mondiale, sembrerebbero. Pechino considera Taiwan parte inalienabile del suo territorio. L’isola si vuole indipendente e ha mille ragioni per esserlo, ma la Cina ne rivendica il possesso. Pechino proclama a ogni evento ufficiale che entro il 2049, anniversario di regime, l’isola tornerà sotto completo controllo cinese. Se Biden ha parlato a vanvera per sua iniziativa abbiamo un pazzo anche alla Casa Bianca, non solo al Cremlino. Se quelle frasi gli sono state invece dettate, stiamo messi ancora peggio. Vuol dire che l’amministrazione dem statunitense sta davvero cercando di allargare la guerra tirando dentro anche la Cina imputandole la colpa di non essersi schierata contro Putin dopo l’invasione dell’Ucraina, posizione quasi scontata vista la natura dell’alleanza tra le due potenze. Da parte di Washington, una follia.

Con l’invasione russa dell’Ucraina in corso, uno scontro americano con Pechino su Taiwan potrebbe essere fatale. Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri di Putin, ha detto recentemente di considerare Taiwan parte della Repubblica popolare cinese. E l’intesa russo-cinese celebrata in un documento programmatico il 4 febbraio scorso e firmata a Pechino da Putin e Xi Jinping promette alla Cina la copertura russa. Di certo le parole di Biden sono l’esatto contrario della tradizionale politica della “Cina unica” sostenuta dagli Stati Uniti, una politica di studiata ambiguità, di piedi in due staffe, una formuletta vuota ma utile che finora ha consentito agli Stati uniti di tenersi fuori dalla disputa cavandosela con frasi di circostanza.

Un comunicato ufficiale della Casa Bianca ha subito smorzato le parole di Biden dicendo che “non c’è cambiamento di dottrina sul tema”. Sembrerebbe una presa di distanza dall’uscita presidenziale, una smentita, che però non ha tranquillizzato i cinesi. Pechino ha subito risposto attraverso il ministero degli Esteri. Gli Stati Uniti non dovrebbero difendere la volontà di Taiwan di rendersi indipendente dalla Cina né “sottovalutare la determinazione” cinese, ha detto. Gli incidenti statunitensi su Taiwan cominciano a essere troppo numerosi per essere considerati tali. Il più recente nella prima settimana di aprile, quando è stato prima annunciato e, dopo poche ore, annullato un viaggio lampo della speaker della Camera Nancy Pelosi sull’isola. Ufficialmente l’annullamento è stato dovuto a un (provvidenziale) tampone positivo al Covid della Pelosi.

Negli ultimi mesi tra Pechino e Washington sul dossier Taiwan sono volate dichiarazioni pesanti. Pechino ha chiesto al segretario di Stato Antony Blinken di spiegare bene a Biden di “non inviare segnali sbagliati”. Il capo della diplomazia americana ha risposto che gli Stati Uniti si oppongono alle azioni “unilaterali” della Cina sull’isola e a qualsiasi cambiamento dello status quo. E che saranno “risoluti” nel rendere l’isola in grado di difendersi. Un trattato formale di alleanza militare tra Washington e Taiwan non c’è, un meccanismo automatico di intervento in caso di aggressione nemmeno. Ma sono tutte americane le armi di cui è zeppa l’isola, e sono statunitensi gli incrociatori che stazionano spesso e volentieri davanti alle sue coste. Si tratta di una situazione di teso equilibrio, di una esibizione teatrale di protezione sull’isola. Un scampolo di guerra fredda. Ma finora di sola recita s’è trattato, con il tacito accordo di tutti a far bene la propria parte in commedia senza esagerare con le impennate di tono per non rischiare l’incidente.

Il problema è che la volontà imperiale di Pechino di controllare ciò che transita nel Mar della Cina è una razionalissima necessità della volontà di potenza del regime cinese. La determinazione di Washington a impedirlo ha ragioni uguali e contrarie. Taiwan galleggia in uno spazio strategico tra Mar cinese meridionale e Mar cinese orientale. Quell’isola serve al presidente cinese Xi Jinping a controllare l’accesso agli oceani. Da lì passa il novanta per cento del commercio marittimo. La rotta principale collega, attraverso stretti indocinesi e indonesiani, i porti della Cina orientale al Medio Oriente, all’Africa e all’Europa. E conseguentemente all’’America del nord e all’America del sud.
Formalmente Taiwan si chiama Repubblica di Cina, un resto dello Stato fondato nel 1912 sulle ceneri dell’impero Qing. Su quell’isola si rifugiò Chiang Kai-shek, capo nazionalista della Repubblica di Cina, dopo aver perso contro Mao. Instaurò sull’isola una dittatura. Pechino la considera da sempre sua. Ma Taiwan, ora un regime grosso modo democratico, si considera comunque indipendente.

Perché finora il caso è sempre rientrato tra le crisi che covano sotto la cenere senza però incendiarsi e diventare guerra aperta? Perché i capi politici di Taiwan hanno accettato, per non rovinarsi i rapporti con gli americani, di non alzare il velo d’ipocrisia con cui Pechino e Washington tengono coperta la questione Taiwan. La formuletta “Cina unica” – la “dottrina” che la Casa bianca si è affrettata a dire di non aver cambiato – è fatta da una serie di accordi a tacere per convenienza, con cui le due diplomazie delle due superpotenze hanno evitato finora di confliggere evitando di affrontare il dossier. Un comodo tabù che è stato utile a tutti, compresi i taiwanesi. Che stanno attenti a non chiedere a Washington più di quel che sanno sia disposta a dare.

Se una qualsiasi mossa aggressiva solleva il velo, Pechino non ha ragione di non esibire la sua volontà di prendersi Taiwan perché non ha ragione di tacere sulla volontà di prendersi gli oceani e le vie commerciali che le servono. Pechino non dichiara guerra, ma rende più forti la sua Marina e la sua Aeronautica. Gli Stati uniti finora si sono limitati a lavorare per tenersi cari tutti i Paesi dell’area indopacifica così da poter minacciare di chiudere le rotte in caso di conflitto con la Cina. Pechino conta solo su se stessa. Perché certo la Corea del nord e il Pakistan, suoi alleati, non sono sostegni favolosi. Pechino, al di là dei documenti programmatici bilaterali, non si può fidare nemmeno davvero di Putin che, a sua volta, teme l’espansionismo cinese. Si tratta sempre di un impero piazzato sotto i suoi vulnerabilissimi confini. E, si sa, Putin un po’ paranoico è.