L'abominio farà proseliti
Aboliamo i Dpcm, eredità velenosa di Conte
Non dispongo né della dottrina né tanto meno della prudenza del costituzionalista ordinario, ma la mia militanza anti-dpcm, condotta fino alla noia anche su questo giornale, mi dota di carte in regola per rivendicare non dico il merito, ma il fatto di aver denunciato per tempo il pericolo più temibile delle decretazioni personali del presidente del Consiglio: e cioè che esse avrebbero inaugurato una pratica di governo, legittimandola e impiantandosi in modo inestirpabile nelle consuetudini dell’azione pubblica.
L’ottimo professore Giovanni Guzzetta, qui sul Riformista, ha argomentato che “sfuggono le ragioni per le quali la prassi dei Dpcm dovrebbe continuare a perpetrarsi”. Posso immaginare, vista la sua compostezza, che intendesse dire “perpetuarsi”, per quanto il carattere illegittimo di quella prassi ben giustificherebbe il verbo diverso invece adoperato. Ma le ragioni dell’andamento perpetuo di quella prassi sono lì da vedere e sono quelle che in solitaria abbiamo prefigurato da mo’, e cioè al tempo del primo di quei disinvolti atterrelli con ambizione di governo generale: era – mi si permetta il ghirigoro – la perpetrazione di un abominio che prometteva di perpetuarsi. Ed eccoci qui, pour cause.
L’ultimo dpcm rivolto al trattamento di cosucce come le libertà di movimento, di impresa, di associazione non si sarebbe potuto prefigurare se non fosse stato l’ennesimo di una lunga teoria legittimante. Ed è anche più grave l’ipotesi che vi abbiano fatto ricorso perché cambiare andazzo avrebbe dato segno di sconfessione della linea pregressa: come a dire che bisogna continuare a tirar su case abusive perché costruirne secondo legge crea qualche contrasto nel panorama dell’edilizia illegale. La gragnuola di provvedimenti intervenuti durante un anno di crisi costituiva un pericolo meno per il contenuto delle prescrizioni, pur dissennate, che per il puro fatto di sedimentarsi velenosamente nel terreno di un ordinamento pronto a far gemmare altra roba tossica.
Ma non se ne curava nessuno, né presso le guarnigioni parlamentari ammutolite né dalle parti dei quartieri alti delle istituzioni, e si preferiva lasciar correre quella pratica nell’idea che la primavera vaccinale si sarebbe portata via anche quest’altro virus dell’illegalità a fin di bene. Non abbiamo dovuto attendere molto per avere riprova di quanto quell’idea fosse stolta e irresponsabile. E al prossimo giro di un’altra crisi, per mettere mano a un’altra emergenza (magari – che so? – per difendere i confini nazionali dall’invasione nera, o per far muovere le ruspe contro gli zingaracci), un presidente del Consiglio con un altro nome potrà rivendicare la legittimità di un suo decreto privato spiegando che continua la tradizione non più solo di un avvocato pugliese, ma del suo illustre successore.
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