L'azione di Nordio sulla contestata norma
Abolire il reato di abuso d’ufficio non basta: il problema è la classe dirigente dei comuni
Il procuratore Gratteri, in una largamente condivisibile intervista resa alla Stampa di ieri, ha sostanzialmente dato il suo via libera alla riforma dell’abuso d’ufficio che il ministro Nordio ha iscritto tra le prime incombenze dell’agenda ministeriale. Con la solita schiettezza il magistrato calabrese ha ricordato quel che tutti sanno ossia che l’articolo 323 del codice penale è diventato solo uno spauracchio per i pubblici amministratori, soprattutto locali, ma che si tratta ormai (e da tempo) di una norma praticamente priva di ricadute applicative nelle aule di giustizia.
La riforma pentastellata del 2020 aveva già compresso e compromesso il perimetro di punizione voluto dal codice penale e la modifica annunciata dal ministro Nordio dovrebbe praticamente solo ratificare quella che a tutti gli operatori risulta essere una già effettiva abrogazione di fatto del reato. L’idea di meglio descrivere la condotta punibile, e di restringerla ai soli casi in cui l’amministratore operi con l’esclusivo intento di avvantaggiare o danneggiare qualcuno, dovrebbe di molto limitare lo spauracchio delle indagini e dei processi che tanto affligge chi si occupa della cosa pubblica. È innegabile che l’amministrazione, soprattutto locale, patisca da anni la cosiddetta “sindrome della firma” ossia la paura di sottoscrivere atti che possano poi dar luogo all’intervento delle procure della Repubblica.
Certo incidere sull’abuso d’ufficio dovrebbe alleggerire sindaci e assessori dal timore di avere la polizia giudiziaria per casa o in ufficio, ma non si può ignorare che stanno venendo al pettine questioni irrisolte dell’apparato burocratico periferico che eventi drammatici come quello di Ischia o paralisi gestionali come quelle sull’impiego delle risorse (anche del Pnrr) non fanno altro che rendere ancora più urgenti.
In primo luogo, non si può non prendere atto del livello mediamente (ovvio) scadente della classe dirigente locale in Italia. A capo di amministrazioni medio-piccole e non solo si rinvengono troppe volte figure sprovviste di vere competenze amministrative e che fanno della conquista e della conservazione del consenso il loro unico obiettivo, magari nutrito dell’aspirazione agli scranni più alti e remunerati delle regioni o del parlamento.
Alla fuga dei “migliori” dalla politica che affligge tutte le istituzioni negli ultimi due decenni almeno, è corrisposta una desertificazione della classe dirigente locale con il costituirsi di piccoli principati, enclave e qualche volta clan che agiscono in proprio e in modo totalmente autoreferenziale. In questa palude l’abuso d’ufficio esercita un modesto effetto deterrente nelle cooptazioni, nelle concessioni, nelle inerzie (soprattutto in tema di violazioni edilizie) che segnano la bassa qualità delle amministrazioni locali. In nome dell’autonomia e del localismo si è largheggiato nel consentire la costituzione di staff, consulenti, uffici di supporto, incarichi esterni e rispetto a questi gangli clientelari l’articolo 323 serve a poco o a nulla.
Due ricadute. Gli amministratori, impegnati nell’estenuante conservazione del consenso, seguono poco la concreta vita della macchina burocratica e si affidano ai capi di essa per tutte le questioni rilevanti. Donde la diffidenza verso apparati che non sono stati scelti da loro e che continueranno a operare dopo di loro al servizio del prossimo ras locale. La riforma Bassanini, insomma, meriterebbe un’attenta revisione. Una recente indagine ha dimostrato che, malgrado le riforme legislative sul punto, negli uffici dei comuni sciolti anche più volte per mafia operino sempre gli stessi funzionari e dirigenti che sono la vera spina dorsale del potere amministrativo locale. La “paura da firma” è, quindi, anche il frutto di una congenita diffidenza verso dirigenti e funzionari che il politico eletto si ritrova nei posti-chiave, che non ha il coraggio di far ruotare, che preferisce blandire anziché controllare. Ogni firma, però, può essere un’imboscata tesa da infidi ausiliari assunti negli anni da altre cordate e ora potenzialmente ostili.
I metodi di assunzione e selezione del personale a livello locale, soprattutto nel Mezzogiorno, sono ampiamente discutibili. Nei decenni si è consolidato un circuito clientelare e abusivo che, soprattutto grazie alle periodiche “stabilizzazioni” e “regolarizzazioni”, si è impossessato delle macchine burocratiche locali e regionali. Troppe volte a discapito della competenza e della professionalità. Donde il secondo problema: la cronica insufficienza di personale esperto che possa svolgere i delicati compiti rimessi alla macchina amministrativa locale. Come pianificare interventi complessi, regolazioni urbanistiche, risanamenti territoriali se non si dispone di personale che sappia finanche predisporre un modesto bando di gara o approvare un progetto esecutivo. Il dramma delle varianti in corso d’opera che paralizzano per anni e anni i cantieri è un ginepraio inestricabile di corruzioni, incapacità e inadeguatezze. Pochi sono gli eletti disponibili a sottoscrivere atti di cui poco capiscono, ma per i quali fiutano a occhio e croce l’insufficienza di chi li predispone.
In questo guazzabuglio arrivano le procure della Repubblica, con il loro carico di inevitabili esposizioni mediatiche, spettacolari acquisizioni di documenti, perquisizioni e quant’altro. Il processo mediatico supplisce all’incerto processo penale (come ha riproposto di recente Vittorio Manes, Giustizia mediatica, Il Mulino, 2022) ed è questo il vero problema che tanto impensierisce la politica. Tutti sanno che i processi si perdono per strada, tra una prescrizione e un’assoluzione sulla fedina penale degli amministratori finiscono una manciata di condanne definitive. Ma le tribolazioni mediatiche, il calpestio sulla presunzione di innocenza sono timori reali in cui la “sindrome della firma” assume i contorni di una “paura della gogna” ben più efficiente e irreparabile dell’iscrizione nel registro degli indagati e moltiplicata all’infinito dagli implacabili motori di ricerca su internet.
Abolire o, comunque, contrarre l’area del reato di abuso di ufficio è una soluzione piuttosto bizzarra e certo insufficiente se il fine fosse quello di porre rimedio a problemi di questa complessità che, come visto, mettono in pericolo la vita dei cittadini, l’incolumità delle case, la sicurezza del territorio, l’efficienza dei servizi. Si dovrebbero inaugurare politiche di vero ricambio e riqualificazione del personale, centralizzare attività di progettazione e manutenzione, accorpare servizi complessi, agevolare il ricorso alle esternalità competenti snellendo gli elefantiaci apparati burocratici. L’unica strada per arginare la “paura della firma” è quella di rendere affidabili gli uffici e sicura la collaborazione; anche se è vero che contenere lo sventolio del nodo scorsoio mediatico ha pure i suoi innegabili vantaggi per la serenità di chi deve governare in condizioni così difficili.
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