Leggendo le cronache e i commenti successivi all’approvazione definitiva del cosiddetto disegno di legge Nordio, che abroga il reato di abuso d’ufficio, si ha l’impressione che si voglia ingenerare un sentimento di preoccupazione nell’opinione pubblica portata a credere che si sarebbe inteso favorire alcuni e, specificamente, i cd ‘colletti bianchi’ e gli ‘amministratori pubblici’ e, soprattutto, che si andranno a creare aree di impunità nell’agire della pubblica amministrazione. Nulla di tutto ciò è vero. Addirittura, c’è chi ha paventato che con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio non saranno più perseguibili i magistrati che abbiano avvantaggiato o danneggiato intenzionalmente un imputato. Ciò oltretutto in contraddizione con l’orientamento dell’area politica che ha approvato l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e che da sempre vuole contrastare l’irresponsabilità dei magistrati che operano non correttamente.

Vorrei chiedere quanti processi che vedano imputati magistrati per abuso d’ufficio si conoscono e sia possibile censire negli ultimi trent’anni. Senza entrare troppo nei tecnicismi, l’abuso d’ufficio, nella sua originaria formulazione del codice penale, era una previsione di illecito cd residuale, ossia andava a sopperire ad eventuali carenze di repressione di illeciti non coperti dai reati tipici a tutela del corretto andamento dell’attività della pubblica amministrazione. Era un illecito piuttosto indeterminato, che lasciava un amplissimo margine di discrezionalità e di interpretazione, spesso (purtroppo) anche a seconda di chi era l’imputato di turno. Il precetto normativo è stato quindi oggetto di ben tre riforme in poco più di trent’anni, tutte finalizzate a restringere e delimitare i presupposti perché potesse essere effettivamente integrato quel reato. Quegli interventi normativi sono stati approvati dai governi più svariati. Il primo nel 1990 da uno dei governi Andreotti, il secondo nel 1997 dal governo Prodi, il terzo nel 2020 dal governo Conte, in epoca covid per tutelare – così disse la vulgata dell’epoca – la classe medica che era il presidio rispetto all’emergenza pandemica.

Il risultato, secondo gli ultimi dati disponibili sono che, solo nel 2021, a fronte di oltre 5.400 procedimenti ci sono state appena 9 condanne dibattimentali e 35 sentenze di patteggiamento per abuso d’ufficio. Praticamente quasi il nulla di condanne, a fronte di oltre 5.400 procedimenti, ossia indagini. C’è da domandarsi quanti procedimenti amministrativi siano stati parallelamente prima sospesi e poi si sono persi a causa di quel “quasi nulla di condanne”? E quale danno è stato fatto alla collettività e all’economia? Un danno oltretutto per la maggior parte irrisarcibile. E non va dimenticato il danno di quanti altri procedimenti amministrativi parallelamente sono stati arenati dal fenomeno della cd “fuga dalla firma” degli amministratori e dei tecnici, soprattutto locali, che non hanno mandato avanti i procedimenti amministrativi più svariati solo per il timore di finire sotto indagine. Il punto è che spesso si trascura che già solo la conoscenza della pendenza di un’indagine penale blocca di fatto il procedimento amministrativo. Quella pendenza è poi di per sé stessa una sanzione per chi si trova coinvolto nell’indagine, oltre che una spesa che non verrà mai risarcita.

Ciò accade poi spesso a carico di amministratori e tecnici locali che non hanno stipendi da nababbi e, quindi, sono ancor più intimoriti dal poter essere destinatari di un avviso di garanzia. Ciò determina altresì un danno enorme anche per il ‘sistema economico’ e l’allontanamento di investitori, pure stranieri, che si domandano perché investire in un Paese dove la denuncia di un concorrente o anche solo di un soggetto che sia insoddisfatto rispetto alla specifica iniziativa amministrativa, magari supportato da un’associazione di tutela di un qualche interesse, possa bloccare il procedimento amministrativo per anni e restare impunito, se poi la sua denuncia si rivelerà infondata o peggio strumentale. La risposta di alcuni rispetto alla sorte minima di condanne per le contestazioni di abuso d’ufficio è addirittura che i colpevoli l’hanno fatta franca. La risposta del nostro ordinamento è che la giustizia deve fare il suo corso e, se verrà accertata la correttezza, l’indagine verrà archiviata oppure verrà ottenuta l’assoluzione all’esito del processo.

Ma queste risposte non tengono in conto o fingono di non tener conto che troppo spesso il malcapitato o i malcapitati di turno hanno dovuto subire anche uno o più gradi di processo, ossia anni di stigma sociale e di perdita o sospensione magari del posto di lavoro e l’arenarsi o il venir meno del provvedimento amministrativo avuto di mira che sarebbe stato invece lecito. Per non considerare quei casi in cui si matura la prescrizione, che può essere anche peggio dell’archiviazione o dell’assoluzione, in quanto, non essendo mai facile – dopo anni di calvario di indagine e processi – decidere di rinunciarci, il malcapitato accetta la prescrizione e, per quanto normativamente è un proscioglimento, resta il dubbio sulla persona nell’ambiente lavorativo o professionale e certamente, in quel caso, il procedimento amministrativo sotteso alla vicenda penale non sarà mai più ripreso, perché nessuno vorrà tornare a correre un qualsivoglia rischio analogo per una vicenda che non è stata definitivamente chiarita. Sia ben chiaro. Non si intende in nessun modo avallare comportamenti illeciti. È senz’altro doveroso sanzionare l’operato illecito degli amministratori pubblici e dei loro concorrenti, ma con fattispecie di reato tipiche e non residuali, come appunto l’abuso d’ufficio.

Il paradosso delle riforme che negli anni hanno interessato il precetto normativo dell’abuso d’ufficio è stato che ne hanno sempre più ristretto e vincolato l’area di applicabilità, ma non sono intervenute sulla possibilità di contestazione. L’intervento sul precetto penale ha determinato quei risultati minimali di condanne sopra ricordati e non ha espunto la possibilità di contestazione eccessiva del reato: troppe indagini per quasi nessuna condanna, con i conseguenti gravissimi danni causati alla collettività e al Paese. Dal che mi sembra inevitabile la conclusione del rigetto dell’opzione di provare a restringere nuovamente e ulteriormente il perimetro del reato di abuso d’ufficio, opzione che già in passato e più di recente non ha funzionato. Senz’altro più opportuna ed efficace la radicale abrogazione di quella fattispecie di reato e lasciare la repressione di eventuali illeciti abusivi di rilevanza penale ai reati tipici a tutela della correttezza dell’attività della pubblica amministrazione. È stato fatto notare dallo stesso ministro Nordio come esista nel nostro sistema penale un’“arsenale” di illeciti tipici, dalla corruzione alla concussione, dal peculato all’omissione di atti d’ufficio, dalla rivelazione del segreto d’ufficio alla turbata libertà delle gare o del procedimento di scelta del contraente e ancora tanti altri illeciti che possono senz’altro reprimere meglio condotte illecite nell’interesse del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione.

Il corposo elenco delle fattispecie tipiche di reato nelle quali può essere ricondotta l’attività abusiva della pubblica amministrazione dimostra di per sé stessa che non si tratta affatto di un’abrogazione di un illecito che determina la creazione di un’area di impunità. Anzi, a volerla dire tutta, non è stato neppure fatto – contrariamente a quello che si afferma – un favore agli amministratori pubblici e/o ai colletti bianchi e ai loro concorrenti, in quanto tutte le fattispecie di illecito sopra ricordate prevedono, per la maggior parte, delle pene ben più alte dell’abuso d’ufficio, che è sanzionato con la pena nel massimo di quattro anni di reclusione. Quindi, il rischio semmai è che, ricondotto il fatto alla fattispecie sua tipica, le sanzioni da ora in poi saranno più elevate. Anche chi volesse denunciare sarà chiamato da ora in poi ad assumersi la responsabilità di ricondurre la sua doglianza ad un’ipotesi di fattispecie tipica e non limitarsi semplicemente a denunciare che ci sarebbe stato un abuso che poi non si rivelerà tale. Alcuni sostengono che residuerebbero però delle aree di impunità perché non tutte le condotte o le omissioni abusive potrebbero essere ricondotte alle fattispecie tipiche del sistema, ciò anche a seguito di alcune recenti interpretazioni giurisprudenziali che avrebbero escluso alcuni fatti dal reato tipico e lo avrebbero ricondotto alla più generale fattispecie dell’abuso d’ufficio.

A prescindere dal fatto che gli orientamenti giurisprudenziali si evolvono nel tempo, di certo di fronte a così tanta insipienza e danno che la sola esistenza della fattispecie di abuso d’ufficio causa, sarebbe miope e auto-distruttivo persistere nel mantenerla in vita o pretendere nuovamente di precisarla meglio, non comprendendosi che si va ad esasperare il paradosso di consentire l’avvio di miglia di indagini, con tutte le loro ricadute nefaste, a fronte di condanne del tutto irrisorie, anche solo nel numero complessivo che si registrano. È evidente che se ci fossero realmente alcune situazioni che non potrebbero essere agevolmente ricondotte ad alcuna delle fattispecie tipiche, ci potranno essere altri strumenti di tutela in via amministrativa o disciplinare, dovendosi anche uscire dall’impostazione che ogni tutela deve trovare a tutti i costi risposta nella repressione penale.

Da ultimo, a smentita pure del fatto che con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio si sarebbe creata un’area di impunità rispetto alla normativa europea, che impone la repressione delle condotte del pubblico uffi ciale o dell’incaricato di pubblico servizio non immediatamente appropriative, ma di mutamento della destinazione di legge del denaro o delle cose mobili pubbliche, non tutti i commentatori hanno riportato correttamente che, pressoché parallelamente all’approvazione dell’abrogazione dell’abuso d’uffi cio, è stato introdotto nel codice penale il reato di peculato per distrazione a profi tto proprio o altrui, le cui condotte, a seguito della riforma del 1990, erano state espunte dalle fattispecie di peculato e la giurisprudenza le aveva però ricondotte nell’alveo dell’abuso d’uffi cio. Si può contestare sul punto probabilmente la tecnica legislativa per cui le due riforme, quella dell’abrogazione dell’abuso d’uffi cio e l’introduzione del peculato per distrazione, siano maturate in provvedimenti di legge differenti. Si può forse contestare che il peculato per distrazione sia stato introdotto con un decreto legge di urgenza (il cd decreto Carceri). Si può ancora contestare che la nuova previsione normativa non è forse impeccabile nella descrizione della fattispecie. Si può contestare infi ne che, se quella condotta fosse rimasta sanzionata in via interpretativa con l’abuso d’uffi cio, sarebbe stata sanzionata fi no a quattro anni di reclusione e ora, invece, con la nuova fattispecie sarà sanzionata nel massimo con tre anni di reclusione. Quel che conta però è la sostanza. Il peculato per distrazione, in linea alla direttiva europea del 2017, che richiede agli Stati membri di punire i pubblici ufficiali incaricati di gestire beni e fondi pubblici che li usano per scopi diversi da quelli prescritti, è oggi anch’essa e di nuovo una fattispecie tipica di illecito sanzionata dal nostro ordinamento e non più rimessa ad un’interpretazione giurisprudenziale – opinabile – dell’abuso d’uffi cio. In conclusione, la direzione è chiara e condivisibile.

I reati dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio sono quelli a fattispecie determinata e tipica e sono per la maggior parte sanzionati anche più severamente dell’abuso d’uffi cio. Ciò che non rientra in quelle fattispecie tipizzate non può essere più ricondotto nell’alveo di una fattispecie penale che, oltretutto nello sforzo di precisarla e limitarla, ha dimostrato la sua totale inefficienza. Anzi, ha arrecato danni a molte delle persone alle quali l’abuso d’ufficio è stato contestato e che per la maggior parte, dopo anni di ingiusto calvario, sono state prosciolte. Soprattutto la tecnica legislativa di salvare quell’illecito cercando di limitarne e perimetrarne la rilevanza non ha impedito che continuasse ad essere contestato in un numero di casi eccessivo rispetto all’esiguità di casi in cui poi l’accusa ha trovato conferma, con danni incalcolabili all’economia e al sistema Paese. Inevitabile quindi la sua abrogazione.

Giorgio Altieri – Avvocato, Tonucci & Partners

Giorgio Altieri

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