A seguito dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del 15 giugno scorso del disegno di legge che mira ad eliminare il delitto di abuso d’ufficio si è passati dalla “paura della firma” alla “paura dell’abrogazione”, forse con toni eccessivamente allarmistici da parte di sostenitori e detrattori. Non c’è dubbio che mentre la travagliata storia della fattispecie, progressivamente delimitata a colpi di riforme (1997 e 2020), costituisce la prova di una continua ricerca di nuovi equilibri tra poteri dello Stato nell’ambito della quale, non è mai venuto meno il sindacato giudiziario sulla “deviazione di scopo” dell’attività amministrativa (tanto che si è efficacemente parlato di “vita, morte e miracoli” dell’abuso d’ufficio, mutuando dal titolo di uno scritto di Tullio Padovani), l’attuale proposta mira, almeno nell’intenzione del Governo, a trasformare il reato in autentico ricordo.

Né, a dispetto di quanto paventato, sarebbe tecnicamente possibile, se non al costo di indebite analogie in malam partem, ricondurre i fatti ora rientranti nell’abuso d’ufficio in altri reati dei pubblici agenti contro la pubblica amministrazione rispetto ai quali l’art. 323 c.p. si pone espressamente come sussidiario: tutt’al contrario, si preannunciano possibili vuoti di tutela con riguardo, ad esempio, alle condotte di favoritismo in concorsi pubblici alle quali, non risultando applicabile la turbativa d’asta (art. 353 c.p.), allude una recente pronuncia di Cassazione (Sezione Sesta, depositata il 16 giugno 2023 n. 26225). D’altro canto, l’analisi statistico-criminologica condotta da Cecilia Pagella sulle pagine di Sistema Penale sulle sentenze massimate della Cassazione dal 1997 ad oggi dimostra che, tendenzialmente, l’accusa di abuso d’ufficio, per sopravvenuta prescrizione o meno, non arriva a condanna irrevocabile. L’alleggerimento, da questo punto di vista, riguarderebbe dunque la fase delle indagini preliminari o del processo più che quella coperta dal giudicato. Di qui si palesa l’innegabile abuso, questo sì, di uno strumento per sua natura controverso che però, già in sede di contestazione, determina gli effetti irreversibili connessi al coinvolgimento di un pubblico agente (principalmente il politico, ma anche i cosiddetti tecnici) in un procedimento penale di eco mediatico da cui deriva il rischio di una paralisi dell’azione amministrativa i cui costi, come assaporati nell’esperienza del covid-19 e ora all’orizzonte in vista dei prossimi impegni legati al PNRR, potrebbero rilevarsi fatali.

Il punto è se la soluzione dell’abrogazione risulti sostenibile alla luce degli obblighi internazionali e dei vincoli comunitari (dalla Convenzione di Merida del 31 ottobre 2003 all’ultima direttiva contro la corruzione del giugno 2023) rispetto ai quali il Ministro della Giustizia ha tuttavia pubblicamente manifestato, ora come in futuro, possibilità di confronto, apponendo di fatto una riserva sulla riforma in atto. Ma soprattutto se, almeno per chi risulti ingiustamente e volontariamente danneggiato da condotte di semplice abuso, il vuoto di tutela penale sia destinato a compromettere in senso potenzialmente “autoritario” i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione (come afferma Massimo Donini, su l’Unità del 23 giugno 2023) o possa piuttosto ritenersi compensato da futuribili misure di rafforzamento della responsabilità amministrativa, contabile o disciplinare del pubblico funzionario, pur accompagnate da una effettiva opera di semplificazione e sburocratizzazione (da sempre annunciata ma mai veramente attuata).

Parimenti, occorre riflettere se l’elevato tasso di archiviazione delle denunce per l’art. 323 c.p. possa supplirsi attraverso una puntuale applicazione delle nuove regole sulla iscrizione delle notizie del registro di reato (art. 335 c.p.p.) ovvero una revisione di quelle riguardanti la priorità nella relativa trattazione (art. 3-bis disp. att. c.p.p.) anziché con interventi di depenalizzazione in teoria sproporzionati: si tratta, in altri termini, di stabilire se il cattivo uso sin qui fatto dello strumento normativo, possa davvero giustificarne l’abrogazione tout court con possibile sovrapposizione del profilo sostanziale su quello squisitamente procedimentale o di progettualità organizzativa degli uffici giudiziari. Una cosa però è chiara: così com’è l’istituto “non tiene”.

Daniele Piva, Lorenzo Pellegrini

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