L’irrazionalità e l’incongruenza di un testo normativo stimolano sempre una reazione sotto forma di interpretazione “correttiva”, o “adeguatrice”, anticamente definita “teleologica” (ma alla fine si tratta pur sempre della riscrittura del testo), non diversamente da quando la disposizione normativa esce dalla penna del legislatore oscura o vaga. Se in quest’ultimo caso al giudice viene rimesso l’incomprensibile di significato, nel primo gli si pone tra le mani l’indecifrabile di senso. Come non ritenere che senso e significato spetti allora proprio a lui definirli?

Si è così sviluppata intorno all’art. 323 una vera e propria riconversione ermeneutica che, passo dopo passo (e sarebbe interessante seguirli tutti, uno per uno: un vero percorso di formazione) ha condotto l’assetto reale dell’abuso d’ufficio all’esatto punto cui l’avevamo lasciato prima del 1990: una fattispecie a largo raggio che incrimina la condotta dell’agente pubblico non solo quando sia svolta in contrasto con precise norme che regolino l’esercizio del potere, ma anche quando essa sia orientata alla realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito. Sono queste ultime parole delle Sezioni Unite della Suprema Corte, e postulano che sia il giudice a valutare gli interessi in gioco, a stabilirne la consistenza, ad apprezzarne l’offesa. Siamo tornati all’origine: la violazione di legge non è che l’antico abuso di potere del codice Rocco.

Ma il contesto non è più quello di allora, quando l’abuso era un ranocchio normativo; ora è un principino la cui signorìa si colloca sul limitare che divide – o dovrebbe dividere – giurisdizione penale e pubblica amministrazione, ma in un modo peraltro del tutto particolare, perché non rappresenta, propriamente, una “guardia” di confine, quanto piuttosto l’autore di quel confine. È quindi inevitabile che si trovi esposto alle tensioni che caratterizzano i rapporti tra giudice e pubblica amministrazione. Ma qui sta il punto, il vero punto della vicenda. Si è detto: rapporti tra giudice e pubblica amministrazione, mentre si sarebbe dovuto dire piuttosto: rapporti tra pubblico ministero e pubblica amministrazione. Infatti, chi scorre le sentenze di cassazione che confermano condanne in tema di abuso d’ufficio (e delineano il quadro della legalità “raggiunta” dal “formante” giudiziario), si trova per lo più sciorinate, al netto di specifici apprezzamenti “tecnici”, vicende gravide di disvalore pregnante.

Il fatto è che in cassazione arriva solo una frazione (percentualmente nemmeno troppo elevata) dei casi in cui si procede per abuso di ufficio, con esito vario e per un tratto di tempo lungo e indefinito: da quando si è abolita la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, potenzialmente eterno. Lo sguardo deve allora concentrarsi non più sulla legalità “raggiunta”, ma su quella “offerta” all’inizio, quando tutto comincia, e cioè sulla capacità selettiva che la fattispecie può davvero esercitare rispetto all’avvio di un procedimento penale. È questo infatti il momento cruciale per l’amministratore investito dell’indagine, soprattutto se si tratta di un innocente (cioè, per usare il termine autorevolmente proposto di chi se ne intende: un colpevole che riuscirà a farla franca).

Infatti l’inizio stesso esaurisce, per lo più, l’intera gamma degli effetti esiziali che il malcapitato può trovarsi a subire. Su questo piano, l’asticella risulta davvero bassa assai: alla stregua della deriva ermeneutica di cui si è detto, basta un atto censurato per qualche profilo di irregolarità e un sospetto più o meno consistente di vantaggi patrimoniali privati o di un qualche danno ad altri cagionato per evocare il fantasma della notizia di reato, che è ben in grado di accompagnare anche molto a lungo i sonni del processo.

Per evitare questi incubi notturni insistere di bulino sulla fattispecie dell’art. 323 per affinarne la “precisione” equivarrà a cercar farfalle sotto l’arco di Tito. Servirebbe – come ognuno intende – qualcosa di diverso; e si tratterebbe, con ogni plausibile evidenza, di parole difficili da ascoltare; almeno fin che dura questa stagione.