Donald Trump is back, e questo porta inevitabilmente a rimescolare le carte e a riscrivere gran parte delle future strategie europee e non solo. Per mesi la gran parte degli analisti e dei commentatori si è soffermata principalmente ad analizzare le conseguenze di un’eventuale vittoria del repubblicano (mai data per certa) spiegando il perché l’Italia e di più l’Europa avrebbero dovuto augurarsi una vittoria della vicepresidente Kamala Harris che – a onor del vero – politicamente era l’unica incognita di questa campagna elettorale.

Trump è già stato presidente, e quando il suo sfidante era ancora Joe Biden si è necessariamente parlato di due presidenze a confronto. Con Harris no, perché – per quanto abbia beneficiato di una certa dose di edulcorazione mediatica – non ha mai gestito direttamente dossier o ricoperto un ruolo chiave nella politica estera della Casa Bianca. Ora però il ritorno di Trump – dal 20 gennaio 2025 – obbliga i partners degli Stati Uniti a valutare quali saranno l’atteggiamento e l’impegno da mettere in campo in futuro. Preoccupa il possibile isolazionismo americano e l’atteggiamento Usa dinanzi ai pericoli che incombono sull’Occidente. Gran parte delle risposte verrà dalle prime mosse del neo-presidente, dalle scelte che farà in seno alla nuova amministrazione, dagli uomini e dalle donne che guideranno i dipartimenti dell’intricata macchina burocratica statunitense. Chi sarà il prossimo segretario di Stato, il prossimo consigliere per la Sicurezza nazionale, chi andrà al Pentagono. Per non dimenticare il vicepresidente, che non è uomo da lasciare in panchina ma che avrà il suo peso nella Situation Room.

Ogni scelta ci dirà molto sull’approccio ai dossier caldi, quelli che preoccupano al di qua dell’oceano. È chiaro che la politica estera di Trump lo sarà in senso stretto e cercherà – come già fatto nei suoi primi quattro anni alla Casa Bianca – di sfruttare molto il suo ascendente personale, la sua proverbiale vocazione da uomo d’affari alla trattativa e al convincimento. Strategia che in Italia suona familiare, in quanto utilizzata con successo da Silvio Berlusconi, che dal mondo degli affari proveniva. Auspica per lo meno che questo funzioni con Putin e Zelensky.

Dossier Ucraina

Il dossier Ucraina sarà il primo che l’amministrazione Trump affronterà, e The Donald in prima persona cercherà di affrontare, dovendo far fronte alle aperture – seppur fredde – della Russia e alla netta chiusura di Kiev. Sapendo pero che Kiev resiste grazie all’appoggio occidentale e in particolare a quello di Washington. Elemento su cui Kiev sa di non poter troppo forzare la mano. Trump ha dalla sua l’appoggio interno dei repubblicani e un responso delle urne chiaro anche su questo punto. Lui stesso si è definito – correttamente sul piano storico – il “presidente che non ha fatto guerre”, e tale vuole restare. Qui si apre un’altra non marginale questione nella politica estera americana, già stata punto di maggior attrito tra repubblicani e democratici, tra Trump e Biden: la percezione. Perché secondo The Donald e il Grand Old Party, l’attuale caos mondiale è l’esito scontato della percezione di debolezza che gli Stati Uniti hanno trasmesso dopo la ritirata disastrosa dall’Afghanistan, unito all’aver spinto la Russia in braccio al vero nemico degli Usa: la Cina. Tutte conseguenze della politica estera dei democratici – dicono dalle parti dei repubblicani – iniziate ai tempi di Obama, attenuate dall’amministrazione Trump (sui cui però pendeva la spada di Damocle del Russiagate) e proseguita in maniera accelerata sotto Biden, con il risultato che è sotto gli occhi di tutti.

Ridisegnare il “New order”

Trump si è posto l’ambizioso – quanto titanico – obiettivo di porre fine ai conflitti, di ridisegnare il “new order”. Che, qualora dovesse prendere forma, non sarà uno scacchiere omogeno, imperiale. Con Trump si aprirebbe quella nuova fase in cui – per dirla facendo un paragone con l’impero romano, di cui non per caso gli Stati Uniti si sentono eredi e dal quale sono ossessionati (ricorderete il tam-tam social “quante volte al giorno pensi all’impero romano”) – occorre creare delle “tetrarchie” in chiave moderna. Non siamo ancora alla divisione dell’Impero, ma è chiaro che nulla sarà più come prima. Tenendo sempre presente il “fattore umano” e l’imprevedibilità della storia. Non è un caso che anche Obama nel 2008 parlava di graduale disimpegno. Da qui quindi torneranno centrali “gli accordi di Abramo” a Oriente, l’Aukus nell’Indo-Pacifico e la Nato qui in Europa.

Sempre dall’Europa vengono le maggiori preoccupazioni sul bis di Trump, ed è certo che l’impegno dei paesi europei nel rispettare i parametri economici sarà oggetto di crescente pressione. Le parole di Macron (“dobbiamo essere preparati, dobbiamo scrivere noi la Storia”) suonano all’orecchio americano come un tentativo francese di ritentare una propria guida egemonica dell’Europa, e questo potrebbe favorire l’Italia, vista l’affinità ideale con Giorgia Meloni. Una cosa è certa: Trump non punterà sull’interlocuzione con l’Unione europea ma con i singoli Stati, privilegiando la realtà degli Stati nazionali che sulla politica estera operano in maniera distinta (talvolta con interessi confliggenti). Sarà la Nato il luogo della collegialità, e il G7 lo strumento di coordinamento con gli storici alleati. La sintesi globale del mondo in chiave occidentale.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.