L'editoriale
L’accusa di Ultimo, i giovani italiani e l’isola che non c’è più: perché abbiamo perso il futuro
Il cantautore Ultimo non è proprio l’ultimo dei chiacchieroni da bar. E se un leader della musica giovanile, che ha 28 anni e colleziona dischi d’oro e di platino, dice al Corriere della Sera che “oggi essere giovani è tremendo”, e poi accusa la politica intera di astrattezza e inconcludenza, qualcosa poi dovrebbe succedere. Niente. Quel mondo accusato di sordità, conferma di non voler ascoltare. Ultimo chiede di poterci credere, di poter ancora sognare. “Non conosco nessun ragazzo della mia età che vada a votare, e nessuno che vada in chiesa. Fascisti e comunisti: i giovani non ne possono più. Cos’è la sinistra? L’ipocrisia del buonismo? Cos’è la destra? Il cattivismo di chi chiude i porti a coloro che muoiono in mare? Su X già annunciano la prossima pandemia. Ma ci rendiamo conto di quale trauma sia stato per i ragazzi la pandemia?”.
Già. Qualcuno dei big di partito, o anche qualcuno di noi eroi del divano, ha mai pensato che “c’è una generazione che non ha fatto il viaggio della maturità, si è vista bloccata in casa al momento di spiccare il volo, ha perso per sempre opportunità che non tornano”? No. E quindi neppure pensa alla pandemia mentale di un’epoca dove i buoni esempi li danno tutt’al più il Papa e il presidente della Repubblica, ma fuori dal recinto delle prediche c’è un Paese che non produce e non innova, impegnato a creare debiti che peseranno sui giovani e dove il 5 per cento dei cittadini paga le tasse per tutti gli altri. Non è andata sempre così.
Carlo Azeglio Ciampi raccontava i suoi vent’anni come una splendida avventura: “Ho vissuto la Seconda guerra mondiale e la mia città era stata distrutta per l’80%, ma la mattina ci alzavamo convinti che a fine serata avremmo fatto un passo avanti”. Nel film “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, il giovane studente di medicina Luigi Lo Cascio si fionda nella Firenze del ’66 per dare una mano dopo l’alluvione. È il paradigma di una generazione che vuole crederci e cambiare, e anche chi non farà il ’68 se ne costruirà uno suo personale. Ancora a fine anni ’90, il cantautore Lorenzo Jovanotti sente di essere, con i suoi coetanei, “l’ombelico del mondo”. E i cantautori delle epoche precedenti viaggiano tuttora in un universo di buoni sentimenti: Venditti da anni strimpella solo l’amore, Vecchioni recita estasiato i versi degli antichi greci, persino Vasco Rossi ha fatto pace con la vita e si definisce “il Supervissuto”.
Perché abbiamo perso il futuro? Forse la radice di questo declino è nel germe che tre decenni fa venne instillato nella vita pubblica, con la pretesa di redimerla. La delegittimazione perenne della politica, la devastante deriva dell’”uno vale uno”, lo stillicidio di aggressività verso chiunque detenga un potere o persino un ruolo legato alla competenza, sono la vera malattia occulta del Paese. Perché cancellano il bene immateriale più prezioso, la fiducia nell’agire collettivo. Il clima di guerriglia permanente condito di beghe pseudo-ideologiche, fa passare la voglia di scommettere su ciò che può ancora accadere. Anche perché ai veleni di un trentennio di aggiungono vizi endemici come lo strapotere delle caste o la prassi del nepotismo e del “conosci qualcuno”. Il boom degli anni ’50 e ’60, tanto favoleggiato, non era composto di Lambrette, Cinquecento e canzoni di Edoardo Vianello. Era trainato soprattutto da una convinzione: posso fare, posso crescere, posso essere me stesso in un mondo che mi accoglie e mi cerca. L’isola che non c’è oggi non si intravede neppure. La notte prima degli esami fa ancora paura, ma soprattutto per ciò che accadrà dopo. Così, gli occhi dei ragazzi cercano un altrove nei loro mondi privati o magari nel continuo e illusorio scrolling di un social network. Eppure, avrebbero moltissimo da insegnare ai dissipatori del benessere che li hanno preceduti, campioni di conformismo e di ipocrisia, di gastrite e ansia da prestazione.
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