Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la sesta di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia.

Luglio 2008, ho 15 anni. Apprendo da un quotidiano acquistato all’edicola che mio padre è un mafioso, vedo la sua faccia stampata su quella pagina di giornale. Mi faccio prendere dal panico e gli telefono: lui mi rassicura, mi dice che è tutto falso e di stare tranquillo perché si tratta soltanto di un errore. In quegli stessi giorni, i giornali in Umbria titolavano: «Arrestato Paolo Faraone, Ministro della mafia in Umbria. Sequestrati beni per 2.500.000 euro». Anche qualche telegiornale diede la notizia.

Secondo l’accusa, il boss di Palermo Lo Piccolo aveva fornito le referenze di mio padre alla famiglia mafiosa dei Madonia per riciclare capitali illeciti nel sito umbro. In realtà mio padre a Terni aveva rilevato un ristorante con il ricavato della vendita di alcune proprietà e con i prestiti bancari. Insomma, tutto tracciabile, nulla a che vedere con ipotesi di intestazioni fittizie. Tant’è che lo stesso Tribunale di Terni ritenne che le indagini erano a tal punto sommarie da non poter formulare alcun capo d’accusa. Ai tempi ci sembrò che fosse tutto finito, ma ci sbagliammo.

I magistrati di Palermo, per gli stessi fatti, avviarono un altro processo penale e sequestrarono tutti i beni della mia famiglia. Il sequestro fu poi revocato dal Tribunale del Riesame che lo ritenne di origine lecita. Anche questa volta, ci illudemmo che tutto fosse finito, ma ci sbagliammo nuovamente. Lo stesso patrimonio appena dissequestrato venne risequestrato dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, allora presieduta da Silvana Saguto, la stessa che qualche anno dopo sarebbe stata radiata dalla Magistratura perché accusata di reati gravissimi che vanno dall’associazione a delinquere alla truffa, passando per il peculato e l’abuso d’ufficio.

Dalle “motivazioni” di quel provvedimento emergeva che mio padre, da ministro della mafia in Umbria, era stato “declassato” a prestanome di un certo Lo Cricchio. A questo punto mio padre viene stretto nella morsa micidiale di due processi: il processo penale e quello delle misure di prevenzione. Il primo si è concluso con un nulla di fatto perché i giudici, dopo anni e anni, si sono accorti che i fatti erano avvenuti in un distretto diverso da quello di Palermo. Il secondo si è definito con l’applicazione della confisca di tutto il patrimonio e della sorveglianza speciale per due anni. Il tutto da innocente. Da quando è cominciata questa maledetta vicenda, la vita della mia famiglia è cambiata bruscamente e irrimediabilmente. Il sequestro ha reso impossibile a mio padre anche pagare per un buon avvocato. Si è ritrovato senza reddito, senza lavoro, senza casa. Un padre che, nonostante la distanza geografica che lo separava dai suoi due primi figli, me e mia sorella Flavia, riusciva a tornare giù a Palermo ogni fine settimana o quasi; un padre che garantiva economicamente per i suoi tre figli, ora non più in grado di poter garantire nemmeno sé stesso. Mia sorella è stata costretta ad abbandonare la sua passione, la danza; abbiamo perso la casa; le volte in cui io e mia sorella riuscivamo a spendere del tempo con nostro padre e nostro fratello più piccolo Gabriele si ridusse prepotentemente.

La sensazione di essere vittima dello Stato – o meglio, di chi dice di rappresentarlo – è difficile da descrivere. Ci si sente traditi, perché ci si vede attaccati da chi dovrebbe difendere te, i tuoi diritti; ci si sente schiacciati, perché non è possibile difendersi dal sospetto. A lungo mi sono chiesto se la valanga che ci ha travolto fosse stata innescata da un errore giudiziario, uno di quelli che in una democrazia, seppur atrocemente, possono capitare perché l’uomo non è infallibile. La cattiva sorte che ci è capitata è la stessa di quella che ha colpito tanti imprenditori per bene le cui aziende sono state abbattute sotto i colpi di un sistema criminale para-legale che ha distrutto il tessuto economico siciliano. Persino tra i miei amici, ce ne sono alcuni che sono stati costretti a emigrare negli Usa per lavorare e vivere. Ma si può davvero spiegare un esproprio su così vasta scala col cattivo operato di qualche giudice che avrebbe creato un’associazione a delinquere per arricchirsi sulle spalle della gente?

Le reali cause vanno ricercate più a monte, esattamente in una legge radicalmente incostituzionale che permette di distruggere la vita di intere famiglie sulla base di semplici sospetti. Mi è stato spiegato che nella maggioranza dei casi a subire le misure di prevenzione sono persone che non hanno commesso alcun reato. Anche se un cittadino riesce a smentire le accuse più infamanti subirà comunque la confisca.
Devo ammettere che all’inizio non riuscivo a credere che nella “civilissima” Italia potessero esistere leggi tipiche dell’inquisizione ma alla fine la forza dei fatti mi ha costretto a ricredermi. Siamo di fronte alla negazione stessa dello Stato di Diritto! Il paradosso è che, all’ombra dell’antimafia, si è radicata una sorta di “dirigismo giudiziario dell’economia” che contende a ciò che resta della mafia vera il monopolio dell’oppressione del popolo siciliano. Una macchina infernale che garantisce vere e proprie posizioni di rendita a tutti coloro che gravitano attorno al mondo delle amministrazioni giudiziarie. Non occorre essere giuristi per capire che alla base delle diverse opinioni riguardo alle misure di prevenzione vi è una scelta di campo di tipo culturale.

Da un lato c’è chi ritiene che una persona che non ha mai subito una condanna sia un innocente; dall’altro c’è chi l’accusa di essere un colpevole sfuggito alle maglie troppo larghe della giustizia penale. La seconda opzione, purtroppo, raccoglie molto consenso nella popolazione, in alcuni settori della Magistratura e sui media. È per questo che le misure di prevenzione sono considerate uno strumento “efficiente” e “indispensabile” nella lotta alla mafia: un congegno raffinato per rimediare ai processi penali troppo garantisti e agli errori dei giudici che non hanno condannato.

Mio padre non è mai stato condannato per mafia, in compenso è stato punito e distrutto da una misura di prevenzione antimafia. Prevenire è stato peggio che reprimere. Oggi, dopo dodici lunghi anni, la mia famiglia è ancora sommersa nella palude delle conseguenze dell’infame attacco giudiziario che abbiamo subito. Nonostante i danni economici, esistenziali e sociali, non ci siamo arresi e stiamo cercando di ottenere giustizia. A fianco di Nessuno tocchi Caino ci battiamo affinché la lotta alla mafia non sia un pretesto per sopraffare gli inermi cittadini.
Colpire degli innocenti, semplicemente, non è lotta alla mafia e una legge che lo consente non è una buona legge. Bisogna reagire a questa deriva autoritaria chiamata impropriamente “prevenzione antimafia” per difendere la dignità inviolabile dell’uomo, il diritto al lavoro e la libertà di impresa.

Davide Faraone

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