Bye bye Fofò, indimenticabile vocalist dell’Extasy di Mazara del Vallo. Bye bye Alfonso, piccolo avvocato spione con la telecamerina al Comune di Firenze. Bye bye Bonafede, ministro di giustizia accovacciato sotto le toghe. Non ti rimpiangeremo. Ma piangeranno gli uomini che indossavano le toghe che lui baciava e che gli passavano il compito sotto il banco? Vediamo.
Non lo rimpiangerà Nino De Matteo, il pubblico ministero più scortato d’Italia, che gli rimprovera di avergli promesso il ruolo di capo di tutte le carceri, un posticino molto ben remunerato e di grande potere, e di averlo poi bidonato mettendo al suo posto una “nullità” come Franco Basentini. Ma non emetterà neanche un sospiro di rimpianto lo stesso Piercamillo Davigo, la fonte cui Bonafede si abbeverava quando diceva: beh, il processo è fatto così, accusa e difesa dicono la loro e poi il giudice emette la sentenza di condanna. L’assoluzione non è prevista, se non per quei furbastri che riescono a farla franca, benché colpevoli. Del resto, ha detto in un‘altra occasione, “gli innocenti non vanno in carcere”, facendo spallucce alla notizia che nel frattempo 27.000 cittadini messi ingiustamente in ceppi, erano stati risarciti dallo Stato.
Davigo è anche lui deluso, perché il ministro si è lasciato infilzare, nelle trasmissioni di Giletti della domenica sera, proprio da quel Di Matteo che ha osato votare a favore del suo allontanamento definitivo dal Csm, diventando così suo nemico. Fofò ha incassato le accuse di chi senza mezzi termini lo accusava di essersi asservito ai mafiosi detenuti, i quali non volevano Di Matteo a occuparsi delle carceri. Ha incassato e non ha neanche querelato. Ma l’uomo non è fatto così, non è certo un lottatore. Matteo Renzi ricorda ancora, eravamo nel 2012 e lui era sindaco di Firenze, questo ragazzo smilzo e il sorriso furbino che gli tendeva piccoli agguati nella toilette di palazzo Vecchio, e che registrava le sedute del consiglio comunale, ignorando il fatto che erano trasmesse in streaming sul sito del Comune. Era avvocato, ma già militante e con l’amore del piccolo colpo alle spalle, il piccolo agguato. Forse oggi Renzi ride e Bonafede piange.
In quale toga potrà asciugare le lacrime? Certamente non in quelle dei giudici di sorveglianza. Che saranno quelli, tra tutti, che più di altri tireranno un sospiro di sollievo. Tirati per la toga da tutte le parti, sospettati di aver scarcerato i boss mafiosi, con una campagna di stampa violenta e mai vista prima nei confronti di magistrati, prima sollecitati al senso di umanità nei confronti dei detenuti, poi umiliati con l’invito a sottomettersi, per le loro decisioni, ai pm “antimafia”. Non singhiozzeranno, chini sulle carte provenienti dal Ministero, i giudici della corte costituzionale, costretti già almeno una volta a stracciare almeno un brandello di una sua legge. Si trattava di quella del 2019, un vero fiore all’occhiello, quella che bastonava i politici, dopo aver fustigato per bene gli ex con il taglio dei vitalizi, considerati tutti corrotti. E stabilendo che la corruzione è una specie di attentato allo Stato, essendo equiparata al terrorismo e alla mafia. La legge, partorita sicuramente da un appoggio esterno (più che un concorso), è stata chiamata “spazzacorrotti” per dare la sensazione che spetti alla magistratura far pulizia.
Un po’ come rivoltare l’Italia come un calzino o smontarla per poi ricostruirla come un Lego. È la filosofia delle toghe preferite da Bonafede. Come il procuratore Gratteri, che lui è andato a onorare all’inaugurazione dell’anno giudiziario, irritualmente celebrato nell’aula bunker di Lametia invece che al tribunale di Catanzaro. Lo stesso Gratteri che non ha speso una parola di rimpianto per un ministro così fedele, quando si è reso conto che i giorni di Fofò volgevano al termine, tanto da costringerlo a scappare dal Parlamento senza aver potuto recitare la propria relazione annuale sulla giustizia perché sulle sue spoglie sarebbe caduto l’intero governo.
Non piange Di Matteo, non piange Davigo e non piange Gratteri. I giudici della Corte Costituzionale hanno addirittura dovuto impartire una lezione al ministro, anche se la legge portava addosso le impronte digitali di qualche toga. Bocciato proprio sul suo (e altrui) spirito vendicativo. Lo stesso che lo ha spinto a un’altra violazione della norma costituzionale, quella che ha reso eterno il processo a condannati e assolti in primo grado, imponendo a loro, e non a pubblici ministeri e giudici, il rispetto del giusto processo. Non ti rimpiangeremo, ministro accovacciato sotto le toghe. Ma il bello è che non sentiranno la tua mancanza neppure loro.