Il cantante della Bandabardò scomparso a 60 anni
Addio Erriquez, Mangiafuoco del Primo maggio e bardo tutto ritmo e vitalità

Erriquez dava di gas, sudava, si dondolava, un gigante piegato sul suo microfono, le mani che sfiammavano sulla chitarra, la voce anche meglio dal vivo. Era la rockstar di un’Italia decentrata che aveva girato in centinaia di concerti, a ogni latitudine, centinaia di città e centinaia di Paesi, e la star meno star di tutto lo spettacolo di arte varia della musica. Si è spento ieri, il cantante della Bandabardò, nella sua Fiesole, a 60 anni, per un tumore. “Ho goduto abbestia”, ha scritto nel suo ultimo messaggio. Un testo emozionante. Si è portato via certi anni e certi aneddoti di chi arrivava a Roma per il Primo Maggio, e di chi il Primo Maggio lo riverberava, in piccolo, tutto l’anno. Ha lasciato canzoni che erano politiche, certo, ma anche allegria e malinconia, in direzione ostinata e contraria, come gli anti-eroi che le popolavano.
Si era inventato questa formula, Enrico Greppi in arte Erriquez. Una mescolanza di canzone italiana, folk, gli chansonnier francesi, una sfumatura di rock, la rumba e il walzer, certi pezzi come filastrocche o stornelli. Era cresciuto tra la Toscana, il Belgio, il Lussemburgo. Poliglotta per natura, aveva studiato il violino, suonato il basso, si era iscritto a Relazioni internazionali e quindi fatto e disfatto un paio di gruppi prima di incontrare, nel tour con Andrea Chimenti, Alessandro Finazzo detto Finaz. L’avance: “Convertiti all’acustico”, Finaz accordava e nasceva la Bandabardò: 28 anni di musica, 13 album, 10 in studio, 2 dal vivo. Dove il gruppo dava il meglio ed Enrico pure.
Era il suo habitat, il live; il sudore che imperlava la fronte e tutta quella peluria, i capelli lunghi e il pizzetto lungo alla Capitano Nordico che i fan bramavano poco educatamente di toccare a fine spettacolo. Con quella faccia un po’ Ascanio Celestini e un po’ Mangiafuoco era impegnato da sempre, a sinistra, senza mezze misure, ed era burattinaio di quei riti dove si cantava e si pogava in egual foga. E capitava fisso uno avanti, nel pubblico, nella folla sotto il palco, con uno zainetto con almeno 20 bottiglie di vino e cerveza, cerveza para todos; e sapore antico di erba e di pelle e assembramenti dentro palazzetti o campi in terra battuta che ce li sogniamo la notte di questi tempi.
Suona retorico dire che non è casuale se ne sia andato proprio mentre tutto questo è vietato, illegale, proibito. Era considerato con la sua band il nume tutelare del Primo Maggio, sempre a Piazza San Giovanni, puntuali, attenziò concentraziò e oggi non lavoro oggi non mi vesto resto nudo e manifesto. L’hanno visto cambiare quel palco, quelli della banda: dagli anni più o meno d’oro del combat-folk (e pure del berlusconismo) con i compagni Modena City Ramblers, e i meno noti Folkabbestia, fino alle promesse dei talent passando per i finti alternativi della musica indie o it-pop. Le mode se ne andavano e loro restavano. L’anno scorso, quando il concertone è stato tutto virtualizzato e tele-trasmesso, per via del covid, la Bandabardò non c’era.
E se dell’impegno, di Cohiba di Daniele Silvestri dedicata a Che Guevara adottata per molti anni, di Bella Ciao sempre presente e dei viaggi in Chiapas si è scritto, altrettanto si dovrebbe ricordare una penna ispirata, da bardo l’appunto, un po’ cantastorie e un po’ poeta. I suoi protagonisti erano irregolari, eccessivi, fricchettoni, innamorati timidi o troppo distratti, e donne attorniate o abbandonate, sognate e sognanti, sempre sensuali, Lola e Consuelo. E il sole e la luna mai soltanto sfondo: la Bandabardò è stata ecologista anni prima di Greta, prima che fosse anche alla moda.
Le parole di Erriquez arrivavano a tutti, le canzoni fatte per sgolarsi e per sudare. Hanno segnato almeno un paio di generazioni, un arco più o meno largo della gioventù. Quando la Banda arrivava nei paesi era come se fosse arrivato il circo. E i signori della festa patronale a chiedere chi fossero questi fricchettoni, questi barboni, “guarda che capelli, e che barbe”, che suonavano forte, ma bene, che facevano alzare la polvere a mandrie di ragazzi. Un’Italia scapigliata e decentrata, periferica, che impazziva in notti di mezza o piena estate. Enrico Greppi ha lasciato dietro di sé squadre di calcetto improbabili e sgangherate chiamate Mojito Football Club e accordi da sprecare ai falò sulla spiaggia.
Erriquez era ritmo e vitalità. Ha definito la sua vita “tutta un’avventura”. Lo piangono colleghi e fans. Hanno scritto nei commenti al suo ultimo messaggio che era come un amico, uno zio, un fratellone. Un anti-divo. Forse anche il coraggio di rimanere fricchettoni; o meglio, di restare leggeri e seri come solo a vent’anni si può essere leggeri e seri. Un impegno in poesia, e vento in faccia, più o meno questo è stato: la libertà che ci vuole.
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