L’attesa conferenza stampa di Aurelio De Laurentiis non è stata banale ma cupa, e ha gettato un’ombra lunga sul Napoli che verrà. I giornalisti, accorsi a Roma per ascoltare le sue parole, hanno assistito a una scena degna dell’Autunno del Patriarca di Gabriel Garcia Marquez: un uomo stanco, sprofondato con il suo completo beige da Hollywood Party in una poltroncina troppo bassa, e il figlio Edoardo ancora più provato che quasi cascava dalla sedia dove pisolava senza vergogna.

La proprietà del Napoli sembra ormai spossata, innanzitutto sul piano finanziario, dalla mancata Champions e dalle conseguenze disastrose della pandemia; e pare aver perduto anche quell’entusiasmo che le aveva consentito, pur con mezzi limitati, la splendida cavalcata sportiva dei primi anni. Lo stesso De Laurentiis si è lasciato sfuggire che «forse qualcuno si era illuso», e per uno che ha investito la sua vita in due fabbriche dei sogni come il cinema e il calcio, è sembrato quasi un segnale di resa. Del resto, la nuova parola d’ordine è ridimensionamento: taglio degli ingaggi, cessione di qualunque giocatore in presenza di offerte adeguate oltre che, come sempre, zero investimenti su giovani, stadio o centro sportivo.

Tagliare o fallire, questo il mantra della prossima stagione; quindi per il rinnovo di Lorenzo Insigne sarà quel che sarà e che Luciano Spalletti si arrangi, tanto è bravo. Non una parola per i tifosi, ma solo richieste di aiuti economici al Governo e rabbia malcelata per quel silenzio di Rino Gattuso, giudicato inspiegabile, durante Napoli-Verona. De Laurentiis mi ha ricordato lo Stan Laurel di Osvaldo Soriano, il “flaco” ormai invecchiato che assoldava il detective Marlowe per indagare sulle ragioni del proprio declino: Triste, solitario y final.

Intanto, a Napoli è andata in scena, con quasi 130 interventi, compresi i candidati a sindaco, l’assemblea di base organizzata dai ministri Mara Carfagna e Dario Franceschini per discutere il destino dell’Albergo dei poveri, unico progetto sulla città a godere per ora di un finanziamento certo, nonostante le tante promesse del Piano nazionale di ripresa e resilienza: evento estemporaneo, ma comunque barlume concreto di dibattito in una campagna elettorale che boccheggia ed è sconvolta dal travaglio angoscioso del M5S. Sarà pur vero che il potere con il tempo diventa vegetariano, come osservava acutamente Anna Achmatova, ma la scomunica dell’elevato Beppe Grillo all’ex premier Giuseppe Conte è sembrata più l’ennesimo sussulto čekista che l’avvio di un confronto finalmente democratico.

Gaetano Manfredi starà sicuramente osservando con apprensione l’implosione del suo principale sponsor, domandandosi se l’avventata Cartulina ‘e Napule messa in scena alla Pignasecca con l’ex avvocato del popolo sia servita più a lui come candidato a sindaco o a Conte nella sua improbabile opa sui grillini. In ogni caso, una conferma del fatto che spesso, come scrive Patrizio Trampetti nella sua ultima canzone per il Premio Tenco, ‘O sud (è fesso). Resta solo da capire se Grillo griderà anche a lui «you’re fired» o se questo destino toccherà a Catello Maresca, ancora alle prese con i marosi del centrodestra.