Proteste in Albania: "Nessun'altra come lei"
Adelina abbandonata anche al suo funerale: “Nessun gesto dello Stato italiano, assente anche stavolta”

Il vestito da sposa e una bara bianca, avvolta dalla bandiera tricolore, simbolo di uno stato di cui tanto Adelina voleva far parte. Il corpo di Alma Sejdini, questo era il suo nome scritto sul permesso di soggiorno rilasciato dalla Questura di Pavia, era li dentro. Fuori, nella chiesa del piccolo paese di Collepasso, nel Leccese, il parroco don Antonio Russo, il sindaco del comune salentino e qualche familiare: “Nessun gesto dello Stato italiano che anche oggi ha dimostrato di essere assente!!” ha scritto sul suo profilo l’amico Daniel Schiano.
A Collepasso risiede tutta la sua famiglia ad eccezione della sorella Ermira, che abita a Pavia (dove viveva anche Adelina) e che oggi chiede verità. “Ci stiamo concentrando sui giorni precedenti la morte – dichiara l’avvocato Barbara Ricotti, il legale di Pavia che sta seguendo la famiglia Sejdini –. Ermira era a Roma per il riconoscimento e la restituzione degli effetti personali e proprio nella borsa di Adelina ha trovato due braccialetti bianchi, di quelli che si applicano ai pazienti all’ospedale: il primo con la data del 3 novembre è un codice arancio dell’Ospedale San Giovanni, l’altro bracciale è del giorno successivo ed indica un codice rosso all’ospedale Santo Spirito“.
Adelina dall’ospedale è uscita dopo poche ore. Poi sotto la pioggia torrenziale ha scavalcato il parapetto di ponte Garibaldi e si è suicidata lanciandosi sulla banchina di cemento. È morta sul colpo nella notte tra il 5 e il 6 di ottobre. “Perché è stata dimessa una donna malata che nei giorni precedenti aveva tentato due volte di togliersi la vita?” si chiede Ricotti.
L’ultima goccia per Adelina è stata la consegna del foglio di via arrivato nelle sue mani il 5 novembre (il suo ultimo giorno di vita). Non il documento che avrebbe voluto vedersi recapitare. Altro smacco alle sue continue richieste di avere la cittadinanza italiana, fatte ad entrambi gli ultimi presidenti della Repubblica, è stato l’ottenimento, invece, di quella albanese. Patria alla quale non voleva fare ritorno: “Nel 2000 ho fatto il battesimo e la comunione. Perché io non ero niente prima. Nell’animo sono una cittadina italiana, ma per i documenti sono un fantasma“.
All’orizzonte Adelina vedeva ben chiaro il rischio di perdere il diritto al sussidio mensile che Anmic Pavia era riuscita a farle avere come invalida al 100%, poco meno di 300 euro. Una vicenda umana e di giustizia civile che ha spinto il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni ad annunciare un’interrogazione al Governo definendo il caso di Adelina “un fallimento dello Stato, che non riesce a tutelare e assistere chi, con enormi conseguenze e indicibili sofferenze, decide comunque di non voltarsi e fare la cosa giusta”. Adelina avrebbe meritato di più, anche dalle istituzioni.
A bordo di un gommone arriva da Durazzo, alla fine degli anni novanta, prima nel Varesotto e poi tra la Basilicata e la Puglia, pronta per il mercato della prostituzione a cui la banda che l’ha rapita a 17 anni in Albania l’aveva obbligata: “Mi ricordo bene il giorno della mia partenza – aveva dichiarato in un’intervista –. Gli agenti della polizia albanese ci dicevano ‘chissà quanti bei soldi andrete a fare con il vostro nuovo lavoro italiano!'”.
In Italia Adelina non aveva trovato una vita facile ma aveva scoperto di potersi fidare delle forze dell’ordine. Denuncia, chiede protezione e fa arrestare 40 persone implicate nel racket della prostituzione tra il paese balcanico e il nostro, 80 le denunce nell’ambito dell’inchiesta ‘Slaves of 2000’ condotta nel 2002 dai Carabinieri di Matera, dal colonnello Giacomo Vilardo e dall’allora capitano Mario Tusa.
Adelina chiede che le indagini siano condotte partendo dalla difesa dei diritti umani e che si considerino le prostitute vittime dei loro sfruttatori. “La prostituzione non è una libera scelta – aveva detto –. O è una mancanza di opportunità e ci sono tante donne… Noi abbiamo la schiavitù in Italia però ci sono quelle poche che non hanno alternative. Quella non possiamo chiamarla libera scelta”.
Nel 2019 le diagnosticano un tumore invasivo al seno. La operano all’ospedale San Matteo di Pavia. Mastectomia bilaterale, poi la chemio. Adelina è senza lavoro e senza casa. La Diocesi pavese la accoglie alla Casa della Carità grazie al vescovo Sanguineti e al vicario don Pedrini, che le danno un piccolo appartamento. Ma il permesso di soggiorno non arriva, anzi, si avvicina lo spettro della perdita di ogni diritto. Un repentino precipitarsi di eventi che l’ha portata a tentare l’ultima spiaggia, la protesta davanti al Viminale.
In queste ore si sono fatti sentire dall’Albania gruppi di attivisti e sostenitori di Adelina che manifestano con striscioni di protesta. “Continuiamo a fare rumore, giustizia per Alma Sejdini” scrive sempre sul suo profilo l’amico Schiano. “Nessun’altra come Adelina”, “Una combattente Adelina Sejdini, dov’è lo Stato?”, “Adelina Sejdini, tu sei la nostra eroina”, “Protesta per Adelina e tutte le vittime del traffico”.
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