Il potere giudiziario abroga il Parlamento
Adozione per coppie gay, la Cassazione si sostituisce alla Consulta e abroga il Parlamento
Con sentenza depositata lo scorso 31 marzo le Sezioni unite civili della Cassazione hanno sancito che una coppia omosessuale maschile può ottenere la trascrizione nel nostro paese dell’adozione del figlio ottenuta all’estero, purché non abbia fatto ricorso alla maternità surrogata, vietata nel nostro ordinamento. Benché accolta con generale favore, quale ulteriore passo verso la piena equiparazione dei diritti di tali coppie a quelle eterosessuali unite in matrimonio, tale sentenza merita più d’una considerazione critica, sia di merito che di contesto. A mio modesto parere, infatti, essa costituisce un esempio paradigmatico di come i giudici considerino il proprio potere interpretativo “costituzionalmente orientato” così ampio e profondo da poter financo sovvertire il chiaro significato letterale della legge.
Com’è noto, infatti, nel nostro ordinamento “l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni” (art. 6.1 legge n. 184/1983). Tale disposizione è stata ribadita in occasione dell’approvazione della legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso (n. 76/2016) laddove il legislatore, pur prevedendo che ai loro componenti si applichino le stesse disposizioni riferite al matrimonio (art. 1.20: c.d. clausola di salvaguardia), vi ha introdotto talune eccezioni, tra le quali il divieto di poter ricorrere alla procreazione medicalmente assistita e, per l’appunto, quello di adozione, fermo restando “quanto previsto e consentito (…) dalle norme vigenti”.
Per questo motivo, i figli che le coppie omosessuali hanno avuto e trascritto all’estero ricorrendo alla (qui vietata) maternità surrogata (se uomini) o (qui ammessa) fecondazione eterologa (se donne), possono essere riconosciuti e trascritti come tali nel nostro ordinamento solo dal genitore “biologico”, mentre il genitore c.d. intenzionale può solo ricorrere all’adozione in casi particolari o co-parentale (c.d. stepchild adoption). Una soluzione che è stata di recente censurata dalla Corte costituzionale, nelle sentenze gemelle n. 32 e 33 di quest’anno (da me commentata su queste colonne lo scorso 10 marzo), perché ritenuta non adeguata ai fini del superiore interesse del minore ad avere un legame giuridico completo anche con il genitore intenzionale. Corte che però, «di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica» ha avvertito opportunamente l’esigenza di «arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore», cui spetta bilanciare i diversi diritti e principi in gioco.
Tra questi il diritto dello Stato di vietare legittimamente la maternità surrogata e di non procedere alla trascrizione dei figli avuti all’estero da coppie omosessuali, limitandosi a consentirne l’adozione da parte per l’appunto del genitore intenzionale (Corte Edu, Grande Camera, parere del 9 aprile 2019). Del resto anche la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che i singoli Stati hanno ampio margine di apprezzamento nell’introdurre limiti di accesso alla filiazione, potendo riservare l’adozione alle sole coppie unite in matrimonio (C. Edu 15.3.2012 Gas e Dubois c. Francia) o estenderla anche alle unioni civili, a patto di non fare differenze tra coppie omo ed eterosessuali (C. Edu, Grande Camera, 19.2.2013, X ed altri c. Austria). Anche per la Corte di giustizia europea il diritto di famiglia rientra nell’identità nazionale di uno Stato, come peraltro recente riaffermato dall’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea nelle sue conclusioni sul caso Kokott (C-490/20). Poiché, infatti, il diritto dell’Ue non prevede norme sulla filiazione, gli Stati membri che prevedono la famiglia eterosessuale, possono rifiutarsi di riconoscere il figlio che una coppia lesbica aveva avuto e registrato all’estero.
Insomma, il contesto legislativo e giurisprudenziale è chiaro: i figli avuti o adottati all’estero dalle coppie omosessuali possono non essere riconosciuti e trascritti come tali da entrambi i loro componenti, potendosi piuttosto ricorrere – per quanto riguarda il cosiddetto genitore intenzionale – a soluzioni alternative (anche sotto il profilo processuale) che tengano comunque conto del superiore interesse del minore. Evidentemente però non così chiaro tale contesto è parso ai giudici della Cassazione i quali, anziché – come pur avrebbero potuto e dovuto – sollevare questione di legittimità costituzionale delle disposizioni che, come detto, vietano l’adozione alle coppie omosessuali, le hanno di fatto disapplicate. Seguendo un percorso argomentativo molto abile, infatti, i giudici hanno ritenuto che i limiti oggi previsti per l’adozione – e cioè il fatto che la coppia adottante debba essere eterosessuale e unita in matrimonio – non assurgono a dignità tale da poter essere considerati principi di ordine pubblico internazionale, come tali opponibili al riconoscimento di provvedimenti esteri di adozione piena di un figlio minore da parte delle coppie non a caso definite “omoaffettive” anziché omosessuali.
Per il giudice ordinario, infatti, tali limiti sono da considerare recessivi se comparati con il superiore interesse del minore alla sua identità e a alla sua stabilità affettiva, relazione e familiare. Anzi essi costituirebbero espressione di una ingiustificata disparità di trattamento perché limiterebbero la genitorialità in base esclusivamente all’orientamento sessuale della coppia richiedente. Ciò tanto più in considerazione della tendenza legislativa a equiparare le unioni tra persone dello stesso sesso a quelle matrimoniali, come luoghi in cui si sviluppa la personalità dei soggetti coinvolti (art. 2 Cost.) anche in ordine alla loro aspirazione alla genitorialità. In questo quadro la scelta della legislazione di non consentire alle unioni omosessuali la filiazione sia adottiva che per fecondazione assistita degrada a mera “opzione legittima ma non universalmente condivisa”, in contrasto con i superiori principi costituzionali e convenzionali e per questo non in grado di assurgere a quel livello di “principi fondanti dell’ordinamento” che ovviamente è lo stesso giudice a fissare.
Ora, si può essere d’accordo o meno sull’adozione da parte delle coppie omosessuali. Anzi, con tutta probabilità (e ne sono profondamente convinto), l’affermazione, condivisa dalla giurisprudenza prima ordinaria e poi costituzionale, per cui “l’orientamento sessuale non incide di per sé sull’idoneità ad assumere ed esercitare la responsabilità genitoriale” (C. cost., 33/2021) spinge inesorabilmente nella direzione del superamento degli attuali divieti. Ma – ed è questo il punto – tali scelte, quando non costituzionalmente obbligate, devono essere compiute dal legislatore, e non dal giudice. Se un giudice, fosse anche la Cassazione, ritiene il proprio potere interpretativo così ampio ed esteso da poter manipolare e addirittura sovvertire il chiaro significato letterale della legge, vuol dire che il potere giudiziario si ritiene ormai investito di un’autorità morale e politica tale da potersi sostituire al potere legislativo.
Tutto ciò mi pare decisamente contrario alla Costituzione, secondo cui i giudici sono – e quindi devono – essere soggetti alla legge (art. 101.2). In uno Stato di diritto se una legge non piace e vada modificata deve essere il Parlamento a stabilirlo, non un giudice. Così come deve essere il Parlamento – quando una disposizione legislativa è incostituzionale ma le soluzioni legislative per rimediare sono diverse – a scegliere come bilanciare i diversi interessi. È infatti al Parlamento, e non alla Cassazione, che la Corte costituzionale ha chiesto di ampliare “le condizioni di accesso all’adozione” piena così da non discriminare tra figli di coppie etero e omosessuali.
Non c’è dubbio che l’inerzia del legislatore in materia di diritti fondamentali è motivo principale di questo debordante interventismo giudiziario. Non è affatto un caso che le minoranze, che un tempo ingaggiavano lotte sul piano politico-parlamentare per l’affermazione legislativa dei loro diritti, oggi preferiscano la strada giudiziaria per ottenere dai giudici quella attenzione che non riescono ad avere dalle forze politiche. E le vicende passate, dal caso Cappato fino alle attuali vicende relative al disegno di legge Zan, con le pretestuose e infondate motivazioni giuridiche opposte alla sua approvazione, ne danno purtroppo conferma.
Ma ciò non giustifica affatto questa continua opera di supplenza legislativa dei giudici, tanto più quando si tratti di giudici ordinari che intendano sostituirsi alla Corte costituzionale, l’unica che, anche in caso di violazione delle carte internazionali e sovranazionali dei diritti fondamentali, può intervenire e dare loro tutela a beneficio di tutti, assicurando ad essi uniformità e certezza (C. cost. 269/2017). Nell’affrontare tali temi, è comprensibile la tentazione di ritenere che siano le conclusioni cui si vuole pervenire a legittimare gli argomenti invocati a loro sostegno. Nel mondo del diritto però dovrebbe avvenire esattamente il contrario.
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