Una settimana dopo la caduta di Kabul, restano ancora due spine nel fianco dei talebani prima di raggiungere il controllo totale dell’Afghanistan. Da una parte, le operazioni di evacuazione, lunghe e macchinose, che rischiano di allungare la permanenza degli Stati Uniti sul suolo afgano. Dall’altra, la resistenza che si organizza tra le montagne del Panshir.
In primo luogo, la situazione all’aeroporto di Kabul. Sempre più disperata: più di 20 mila persone dentro e intorno allo scalo cercano di imbarcarsi sui voli. Già 20 morti nel corso dell’ultima settimana: probabilmente schiacciati dal fuggi fuggi generale provocato da colpi di arma da fuoco. In più, un portavoce del Ministero della Difesa del Regno Unito ha comunicato che sabato scorso sette civili afgani sono stati uccisi in uno scontro a fuoco nei pressi dello scalo. Ciò nonostante le evacuazioni di massa continuano. Gli Stati Uniti hanno già evacuato 10.400 persone da Kabul nelle ultime 24 ore e hanno facilitato l’evacuazione di circa 37mila persone dal 14 agosto. Ma il caos è totale. Al punto che, come raccontano alcuni testimoni, persone della stessa famiglia finiscono per imbarcarsi su aerei che hanno destinazioni diverse.
I piani Usa prevedono l’arrivo, tra oggi e domani, di 33 velivoli in grado di trasportare 400 passeggeri ciascuno. Washington darà la precedenza ai cittadini americani, ai titolari della green card e ai cittadini dei paesi della Nato: solo costoro potranno oltrepassare i cancelli. Rimarrebbero invece esclusi i richiedenti per il programma di visto speciale per gli immigrati degli Stati Uniti. In questa lotta contro il tempo – e anche contro lo spazio, visti gli assembramenti all’aeroporto di Kabul – l’allarme sicurezza resta alto. Il Pentagono teme infatti che l’Isis possa approfittare della folla accalcata al di fuori dell’aeroporto per sferrare un attacco suicida o lanciare un’auto bomba. Intanto, la scadenza per il ritiro definitivo delle truppe, fissata per il 31 agosto, si avvicina rapidamente. La questione della scadenza sarà al centro della riunione virtuale dei leader del G7 indetta oggi da Londra.
Sia la Francia che il Regno Unito auspicano un prolungamento della presenza americana al fine di consentire lo svolgimento dell’evacuazione in condizioni di sicurezza. «Non credo che ci sia alcuna possibilità di restare dopo gli Stati Uniti», confessa il ministro della Difesa britannico Ben Wallace, sottolineando così la necessità di una proroga della deadline. Ma la permanenza degli Usa sul suolo afgano oltre il 31 agosto è del tutto esclusa dai talebani. «Le forze straniere devono ritirarsi secondo la scadenza che hanno annunciato. Altrimenti sarà una chiara violazione», ha detto alla Bbc il portavoce dei Talebani, Muhammad Suhail Shaheen. Riguardo alle intenzioni dei civili afgani, Shaheen chiarisce: «Non li ostacoleremo se hanno un passaporto rilasciato. Possono andare su voli commerciali in qualsiasi momento. Vogliamo che rimangano nel paese, ma se hanno intenzione di andare, possono… se hanno i documenti adeguati». Una dichiarazione che pare tutt’altro che remissiva. Se le forze straniere restassero oltre il 31 agosto, ci sarebbero delle “conseguenze”, minaccia Shaheen.
Oltre a questa, c’è una seconda spina nel fianco dei talebani: la resistenza nella valle del Panshir, situata a nord est di Kabul, l’unica delle 34 province ancora libera dalla bandiera dell’emirato islamico. Legata al nome di Ahmad Shah Massoud, il Leone del Panshir, questa provincia non si era arresa neanche nel conflitto degli anni 90. A suo favore gioca la geografia aspra e ostile, incastonata tra le vette dell’Hindu-Kush, che favorisce la difesa dei resistenti. Abitata in maggioranza da tagiki, la provincia è popolata da 173 mila abitanti diffusi in più di 500 villaggi. Si nascondono qui sia Amrullah Saleh, vice presidente tagiko del governo di Ashraf Ghani, fuggito all’estero, e autoproclamatosi “presidente ad interim”, che Bismillah Mohammad, ministro della Difesa tagiko di quel governo che a inizio agosto scampò a un attacco.
Entrambi sono originari del Panshir. «Possiamo contare su migliaia di persone pronte a combattere», avvisa in una intervista alla Bbc Ali Nazary, capo delle relazioni estere per il Fronte di resistenza nazionale dell’Afghanistan (Nrf) che presidia la provincia. Il capo del Fronte è Ahmad Massoud, figlio del Leone del Panshir. Nei giorni scorsi ha caldeggiato la conclusione di negoziati pacifici con i talebani. «Ma se questi falliscono – precisa – non accetteremo alcun tipo di aggressione». Tuttavia, ammette Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali, «il governo inclusivo auspicato da Ahmad Massoud lo vedo difficilissimo. Si decide di ampliare il tavolo della discussione sulla base della forza dei vari attori e in questo momento i talebani sono fortissimi». Nei prossimi giorni capiremo se la promessa di combattere fino alla morte del giovane Massoud è seria. O se è soltanto un tentativo di negoziare la resa.