Ambiente
Affrontare la sfida del cambiamento climatico: intervista a Ndoni Mcunu
Quella che riguarda l’ambiente è una sfida senza precedenti. Il nostro benessere e la sopravvivenza di molte altre specie dipendono da un enorme e ingarbugliato intreccio fatto di crisi ecologica, salute globale ed equità sociale.
Al Festival di Internazionale a Ferrara, al via oggi 1° ottobre 2021, sarà presente come ospite la climatologa sudafricana Ndoni Mcunu che interverrà proprio su questi temi.
Mcunu fa parte del team di sviluppo di South South North ed è fondatrice e amministratrice delegata di Black Women in Science.
Internazionale a Ferrara è il festival di giornalismo del settimanale Internazionale e si terrà nella città estense dall’1 al 3 ottobre. Fra gli ospiti anche il giurista statunitense Omar Shakir, lo scrittore Martin Caparròs, l’economista Marcella Corsi, il poeta attivista Mohammed El Kurd, la linguista turca Kübra Gümüşay.
Cosa l’ha portata ad appassionarsi e a dedicare la sua vita a conoscere e affrontare le questioni ambientali?
Credo che la mia passione nasca dalla consapevolezza di quanto il mio paese abbia bisogno di essere meglio compreso. L’impatto delle nostre azioni è ancora ridotto, dipendendo dagli strumenti che attualmente abbiamo in campo. E così, quando si scatenano fenomeni estremi, quando c’è insicurezza alimentare per via di siccità o inondazioni, le conseguenze ricadono soprattutto sulle persone più vulnerabili delle nostre comunità.
Può parlarci del suo lavoro con South South North da un lato e con Black Women in Science dall’altro?
Per quanto riguarda South South North, attualmente sto lavorando con il team di sviluppo e, all’interno di questo, con Adaptation Research Alliance. Il nostro obiettivo è tradurre in progetti e azioni concrete la ricerca intorno al miglioramento climatico, in particolare supportando i progetti di adattamento climatico guidati da attori locali. Sto lavorando anche, in sinergia con il Foreign Office, al lancio del progetto Adaptation Research Alliance (ARA) alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) che si terrà a Glasgow. Dall’altro lato, il lavoro con Black Women in Science, organizzazione non-profit di cui sono fondatrice, ha l’obiettivo di supportare lo sviluppo di capacità e competenze delle donne di colore, grazie a progetti di formazione post-lauream. Molte, pur essendo qualificate, non riescono a trovare un impiego: noi le aiutiamo a formarsi come imprenditrici e nel campo della comunicazione e della scrittura scientifica.
Perché è necessario affrontare le questioni ecologiche e sociali allo stesso tempo?
È impossibile dividere le due cose. Per esempio, non si può andare in una zona rurale a spiegare che bisogna salvare l’ecosistema, mentre le persone sono senza lavoro, non godono di assistenza sanitaria, non hanno cibo. È una situazione difficile, bisogna trovare un equilibrio, e capire che questo non beneficia soltanto l’ambiente, ma anche la politica e l’economia. Evidenziare i vantaggi di una maggiore sicurezza ecologica significa far capire il potenziale di crescita economica che questo cambiamento porterebbe, mostrare come verrebbero a crearsi nuovi posti di lavoro. Evidenziare l’aspetto sociale della questione mette in luce i benefici che ci sarebbero su diversi livelli.
Spesso, in ambito scientifico, molti si rifiutano di “contaminare” i loro saperi con quelli elaborati attraverso altre discipline. Sembra non ci sia molto dialogo con gli studi sociali e umanistici e, in questo modo, tutti perdono una grande opportunità di migliorare le proprie conoscenze e crescere come studiosi e non solo. Crede sia effettivamente così? Cosa ne pensa?
Il settore scientifico è legato ai laboratori e alle biblioteche, la sfida che dobbiamo affrontare è quella di portarlo fuori. Dobbiamo mettere in azione questi studi e parlare alle persone in modo che possano immedesimarsi di più negli argomenti trattati, arrivando a capire quanto sia probabile che subiremo gli effetti del cambiamento climatico. Abbiamo bisogno degli studi umanistici e sociali per capire come narrare l’urgenza del cambiamento climatico nei nostri diversi paesi. Spesso, nelle aree rurali, alla fine delle interviste con la popolazione locale necessarie alla ricerca, premeva loro chiedermi se, in cambio della loro disponibilità, gli avrei dato denaro o cibo. Questo dimostra come sia fondamentale capire i rischi e le difficoltà con cui le persone fanno i conti ogni giorno. Dobbiamo interrogarci su come riuscire a legare il problema della mancanza di lavoro, i “green job” e l’economia in generale alla risoluzione dei problemi ambientali.
Un’interpretazione come la sua, che intreccia crisi ecologica, salute globale ed equità sociale, adotta un approccio intersezionale che fa dialogare discorsi, pratiche e saperi sviluppati dai movimenti femministi, postcoloniali, ecologisti, senza dimenticare quelli che si concentrano sulle disuguaglianze economiche. È difficile trasferire tanta complessità nella teoria e nella pratica. Sembra ci sia sempre un punto cieco.
Tante cose diverse convergono nelle azioni per il clima, nella scienza climatica e ambientale. E sì, resta sempre un punto cieco. La cosa più importante è riconoscerlo: è necessario e utile mettersi in gioco ponendolo in primo piano, per cercare di migliorare costantemente la propria comprensione delle cose. Credo che il modo migliore per affrontare tutto questo sia comprendere al meglio il proprio lavoro, cosicché ciò che per gli altri rappresenta un punto cieco per te può diventare un punto di forza, la tua specialità. Allo stesso tempo, è importante fare del proprio meglio per non essere sopraffatti: per diventare davvero un esperto nel proprio campo, bisogna andare avanti un passo alla volta. Impegnarsi per accettare che c’è un punto cieco e mantenere una mente aperta, invece di alzare muri.
Dobbiamo fare i conti con un problema globale di negazionismo a proposito della crisi ambientale e del cambiamento climatico. Perché crede che sia così e qual è per lei il modo migliore per diffondere una conoscenza scientificamente fondata?
Non credo sia necessariamente un problema di negazione, credo piuttosto che dovremmo prenderci delle responsabilità come scienziati del clima. Scienziati, organizzazioni governative e non governative e policy makers hanno bisogno di capire come comunicare con realtà differenti. Inoltre, se non integriamo la nostra conoscenza con altri saperi, compresi i saperi locali e delle popolazioni indigene, avremo sempre un punto cieco e questo finisce per diventare un problema. Ci siamo sempre focalizzati sugli aspetti scientifici senza prendere in considerazione il lato umano. È essenziale capire come comunicare il cambiamento climatico e che, per parlare a uno scienziato, a un investitore o a un avvocato, è necessario ricorrere a tre linguaggi diversi. Solo allora potremo davvero vedere un cambiamento. Tra l’altro, è importante ragionare a lungo termine quando si tratta di valutare l’impatto del proprio intervento. Altrimenti resta inutile continuare a pompare soldi nelle comunità locali e nei paesi destinatari degli aiuti.
Cosa crede si possa fare per affrontare la crisi ecologica a livello di società civile?
Credo bisogni soprattutto comprendere che da questo punto di vista le persone non sono tutte e del tutto vulnerabili: al contrario, hanno in campo progetti e iniziative. Noi possiamo e dobbiamo capire il panorama ecologico, mappare i progetti e pensare a come supportarli. Esistono molti progetti già attivi che vanno però comunicati, vanno fatti conoscere, e noi dobbiamo capire qual è il modo più adatto per farlo.
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