L’ultima volta l’ha detto 24 ore fa: “La terza rata sta per arrivare. Tranquilli”. Il ministro per il Sud e il Pnrr Raffaele Fitto sta parlando dei 18,5 miliardi relativi alla rata scaduta il 31 dicembre 2022 e che doveva arrivare nelle casse dello Stato a marzo. Siamo a fine agosto. E se andate a cercare su un qualunque motore di ricerca, vi rendete conto che il ministro e quindi gli organi di stampa scrivono la tessa cosa da marzo. Con tonalità e aggetti diversi ma il risultato non cambia. Dice, sempre Fitto, che “ormai l’assegno è imminente”. Indica il prossimo Ecofin, la riunione dei ministri economici prevista a metà settembre a Santiago de Compostela, come il momento dell’incasso. Incrociamo le dita. Il problema è che anche gli altri soldi già contabilizzati nel bilancio del 2023 – i 16 miliardi della quarta rata scaduta il 30 giugno – devono ancora arrivare. Se la prima rata (che sarebbe la terza delle dodici totali) arriva – speriamo – a metà settembre con cinque-sei mesi di ritardo, chissà cosa succederà alla seconda (che sarebbe la quarta).

Il Pnrr è scomparso dalle cronache. Non è un tema semplice, è molto tecnico, ma tutti sappiamo due cose: si tratta di 200 miliardi destinati a fare dell’Italia un paese migliore, più giusto, equo e competitivo; è la prima forma di debito comune in cinquanta anni di storia dell’Unione europea. Far fallire il Next Generation Eu vuol dire uccidere in culla ogni ipotesi di federazione europea. Che il dossier sia scomparso dalle cronache non è quindi una bella notizia. Un paese normale dovrebbe avere un contatore digitale che dà conto giorno per giorno sullo stato di avanzamento delle riforme, dei progetti e dei cantieri. Comune per comune, città per città. Il sito dedicato “Italia domani” ha assolto per un po’ a questa mission di trasparenza. Nell’ultimo anno, anche perchè i target di ciascuna rata si sono complicati, l’ha persa per strada.

A tutto questo si aggiunge un terzo motivo di preoccupazione: il bilancio e le casse dello Stato hanno bisogno di quei 35 miliardi come se fossero aria. E visto che il 27 settembre dovrà essere votata la Nota di aggiornamento del Def con i numeri definitivi, è necessario sapere con certezza assoluta il destino di quei soldi. L’ultima volta che il Pnrr ha occupato le pagine dei giornali è stato tra la fine di luglio e i primi di agosto quando il ministro Fitto ha svelato quanto si andava mormorando da mesi: saranno tagliati 16 miliardi di progetti. Almeno otto riguardano i piani urbani integrati, ovverosia centinaia di microprogetti destinati a migliorare la qualità della vita nella città. Soprattutto del sud. “Gli enti locali non sono in grado di consegnare le opere entro giugno 2026, data ultima per la consegna” è stata la motivazione. Non sono d’accordo i sindaci che invece dicono: “Noi siamo pronti, non solo, abbiamo già cantierato e adesso rischiamo di non poter concludere perchè non abbiamo i soldi”. Scuole, giardini pubblici, strade, edifici pubblici, palestre. Tutto cancellato con un tratto di penna. Fitto dice che “non perderemo un solo euro e che anzi quei danari saranno destinati ad infrastrutture più importanti”. In realtà non sappiamo ancora cosa risponderà la commissione di Bruxelles che ha il compito di monitorare e approvare ogni modifica.

Ieri Giorgia Meloni è stata a Caivano, la periferia di Napoli dove due bambine hanno subito per mesi violenze e abusi sessuali da parte di un branco. La premier ha accolto l’appello di don Patriciello ed è andata a mettere i piedi in quel pezzo di periferia italiana abbandonata dallo Stato. Caivano come tante altre. Ha fatto promesse. Con lei il ministro dell’Istruzione Valditara che ha annunciato un progetto pilota per le scuole, “grazie ai soldi del Pnrr”. Vedremo. Speriamo. Non si capisce bene come. Finora il governo ha tagliato i fondi per le periferie e i fondi del Pnrr per i comuni. Intanto aspettiamo le rate. “Imminenti” dicono.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.