L'intervista
Agostino Saccà: “La Rai fa il 39% in prime time, costa poco e produce tanto. La riforma del 2014? Renzi dormiva”
Agostino Saccà ha legato la sua carriera di manager televisivo alla Rai. Responsabile della comunicazione dal 1995 al 1996, negli anni della “Grande lombarda”, Letizia Moratti, è vicedirettore dal 1997 e poi direttore di Rai 1 per un doppio biennio: dal 1998 al 2000 e dal 2001 al 2002. Nel 2002 diventa direttore generale della Rai. Dal 2003 Saccà passa alla direzione di Rai Fiction, carica che ha mantenuto fino al 2007. Dell’azienda di viale Mazzini è senza tema di smentita il più profondo conoscitore e il più spietato analista. Restandone innamorato.
Come immagina il futuro del servizio pubblico?
«La Rai dovrebbe diventare una media company pubblica, adeguarsi alla situazione del mercato di oggi. Ma rimanendo orgogliosa di quello che è e che ha costruito: se non ci fosse, bisognerebbe crearla. Necessariamente».
Perché necessariamente?
«Perché in una situazione in cui non esiste più una pubblica opinione, una opinione coerente con gli interessi generali del paese, perché l’idem sentire si è frantumato, serve un collettore di proprietà pubblica che qualifichi e organizzi le idee. Rai conferma in questa sua funzione ineliminabile la sua centralità».
Anche se poi la crisi degli ascolti c’è per tutti, e anche per la Rai.
«La Rai fa il 39% in prime time. Da trent’anni, tra tutte le televisioni pubbliche del mondo, è la più seguita. Tre punti sopra a Mediaset. Trentaquattro punti sopra a La7. Trentacinque punti sopra La9. Nell’Access prime time Rai e Mediaset sono pari, 36,8% ambedue. Non è vero che gli ascolti sono diminuiti: sono aumentati. Si difende molto bene».
Anche se qualche nome di richiamo se ne è andato?
«Amadeus se ne è andato. Il pubblico no. Di Martino – che ha preso il suo posto – fa più ascolti di lui. Nel punto più alto del palinsesto, l’Access prime time tra le 20,40 e le 21,40. Quello che arriva dopo il tg e apre la prima serata è il momento più sfidante, con una platea di 22 milioni di persone che a quell’ora guardano la televisione».
Peccato che nel suo essere ibrido, la Rai, società per azioni in cui il Tesoro è titolare di maggioranza e il Governo ha la governance, non può mettere a mercato libero quella fascia, in termini di raccolta pubblicitaria…
«Se la Rai avesse la libertà di uscire dai confini che ha, quell’ora farebbe cento milioni di euro in più. Fare il 28% per un programma è una cifra sbalorditiva. Striscia la Notizia, competitor in quella fascia, fa il 13%. Pensiamo a quali mazzate pubblicitarie potrebbe dare a Mediaset».
Non lo può fare, e forse non è neanche la sua mission.
«Certo, sarebbe sbagliato alterare l’equilibrio di sistema. Sarebbe sciocco. Mediaset non va danneggiata, è un patrimonio di questo paese e la sua concorrenza quotidiana serve a tutti, in primis alla Rai stessa. La prima azienda di informazione del nostro paese è anche la prima per intrattenimento. Ed è una industria, culturale e non solo, che rimane tra le grandi eccellenze italiane».
Sono ingenerose le critiche di chi pensa di poter ridiscutere l’affidamento del contratto di servizio pubblico, di rimetterlo sul mercato?
«Non sono fondate su dati di realtà. Sono critiche figlie di un pregiudizio. Che proliferano anche perché da un po’ di tempo la Rai ha smesso di difendersi. L’azionista di riferimento non parla».
La riforma Renzi è molto contestata. Va cambiata?
«La riforma Renzi del 2014 è sbagliata. È insensata per varie ragioni. Lui, che è un uomo molto intelligente, evidentemente dormiva quando gli scrivevano quella legge di riordino. Anche il grande Omero, nell’Odissea, sonnecchia. La prise du pouvoir del governo sulla Rai è stato un errore ontologico. Se la Rai è servizio pubblico e appartiene a tutti i cittadini, in equilibrio sugli interessi generali, deve saper fare mediazione tra maggioranza e opposizione. Un mezzo potente e pervasivo come quello dei Tg Rai – che raggiungono oltre il 50% degli italiani ogni sera – non può mai essere consegnato solo a chi governa. Certo, le linee strategiche appartengono all’esecutivo».
Ma il Parlamento deve avere il suo ruolo.
«La gestione editoriale deve essere equilibrata. Va ricondotta ai principi costituzionali proprio come prevede la storica sentenza del 1974 della Corte costituzionale: “Il governo della Rai appartiene alla Rai come comunità”. Dello spirito di quella sentenza rimane in vigore solo la regola del presidente eletto con i due terzi del Parlamento. Motivo per cui oggi sono in stallo».
Vedrebbe bene la presidenza Agnes?
«Il nome Agnes è nel mio cuore: io socialista, Biagio democristiano, avevamo un ottimo rapporto. È stato mio direttore al Tg3, mi ha fatto crescere. “Sei più bravo di tutti, anche se non sei Dc ti dovevo promuovere per forza”, mi disse lasciando il Tg3 per assumere la direzione generale. Sua figlia Simona è una persona molto equilibrata, molto competente, ha ben fatto tutto il suo percorso professionale fuori dalla Rai. Averla alla guida di viale Mazzini farebbe bene a tutti, a maggioranza e opposizione. Credo e spero che alla fine si affermerà la sua figura».
E cosa direbbe a chi, come la Lega, propone di ridurre il canone?
«La Rai costa meno di tutte le aziende televisive pubbliche europee e produce di più. In un paese dove moltissime aziende, pubbliche e private, hanno percepito contributi anche pesanti dallo Stato, la Rai non ha mai preso niente. E quando il Parlamento approvò il decreto Ciampi, Letizia Moratti lo rifiutò, dicendo che la Rai si era salvata da sola: facemmo una due diligence con lei quando io ero suo capo staff, tagliammo molto. E neanche nella nuova finanziaria c’è più un contributo. Alla Rai però servono risorse e toglierle dal canone significherebbe dovergliele dare con altro prelievo dalla fiscalità generale. Che senso avrebbe?»
© Riproduzione riservata