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Agroalimentare: buono l’accordo, ma la Brexit aumenterà burocrazia e concorrenza
L’accordo di Natale sulla Brexit mette in salvo il settore agroalimentare del Made in Italy, che potrà così continuare a esportare senza dazi o quote nel suo quarto mercato di sbocco commerciale, dopo Germania, Francia e Stati Uniti, per un valore complessivo di 3,4 miliardi di euro.
Il “no deal” avrebbe determinato barriere tariffarie, minore domanda interna nel mercato inglese e il deprezzamento della sterlina, con il risultato di penalizzare i prodotti italiani più venduti nel Regno Unito. Prima di tutto il vino – spinto dal Prosecco Dop – che rappresenta il 24% del totale delle esportazioni agroalimentari oltremanica, con un fatturato superiore a 830 milioni di euro.
Al secondo posto tra i prodotti agroalimentari italiani più venduti in Gran Bretagna ci sono poi i derivati del pomodoro, ma rilevante è anche il ruolo della pasta, dei formaggi e dell’olio d’oliva. Importante anche il flusso di Grana Padano e Parmigiano Reggiano per un valore attorno agli 85 milioni di euro. Di assoluto rilievo anche il nostro export di ortofrutta trasformata (13%) e ortofrutta fresca (6%), così come dei prodotti da forno e farinacei (11%) e dei prodotti lattiero-caseari (9%). Hanno un forte impatto su questo primato i prodotti a indicazione geografica protetta (Igp), che incidono per oltre il 30% sulle nostre esportazioni verso Londra e che grazie all’accordo commerciale raggiunto continueranno a essere riconosciute e tutelate in territorio britannico.
Come ricorda Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, “il raggiungimento di un accordo commerciale tra Ue e Regno Unito è stato auspicato e sollecitato da tutti gli agricoltori negli Stati membri e nel Regno Unito. Il fallimento delle trattative, con il ritorno dei dazi doganali e delle quote, avrebbe destabilizzato l’interscambio agroalimentare bilaterale”. In assenza di un’intesa, rileva Confagricoltura, solo per l’export di prodotti ortofrutticoli nel Regno Unito gli operatori degli Stati membri avrebbero dovuto sostenere un onere di circa 800 milioni di euro.
“Dal 1° gennaio prossimo, esportare sul mercato britannico sarà comunque più complicato sotto il profilo documentale e dei controlli. E questo aumenterà i costi”, avverte Giansanti. In pratica, tutte le esportazioni dovranno essere accompagnate da una dichiarazione doganale. Per i vini, spumanti e liquori provenienti dalla Ue scatterà dal 1° luglio 2021 l’introduzione di certificati di importazione che prevedono anche lo svolgimento di un test di laboratorio. Scende in campo anche la Nfu, l’organizzazione degli agricoltori britannici la quale – prosegue il presidente di Confagricoltura – “ha già segnalato al proprio governo il rischio di blocchi e rallentamenti del traffico alle frontiere a causa dei nuovi adempimenti”. Infine, aumenta pure la concorrenza ai nostri prodotti. La causa? Gli accordi commerciali bilaterali che il Regno Unito, a seguito del recesso dalla Ue, sottoscriverà con i Paesi terzi. Un’intesa è già stata perfezionata con il Canada e le trattative sono in corso con gli Stati Uniti.
Con l’uscita dall’Unione Europea, i produttori italiani temono pure che la Gran Bretagna possa adesso promuovere una legislazione sfavorevole alle esportazioni agroalimentari italiane come ad esempio l’etichetta nutrizionale a semaforo sugli alimenti che si sta già diffondendo in gran parte dei supermercati inglesi e che – precisa la Coldiretti – boccia ingiustamente quasi l’85% del Made in Italy a denominazione di origine (Dop).
Che cosa serve fare adesso?
Secondo Cia-Agricoltori Italiani occorre, in primo luogo, “mantenere una stretta vigilanza sulla governance dell’accordo per evitare danni futuri alla libera e leale concorrenza”. Questo risultato tanto atteso ha, infatti, evitato una rottura che avrebbe determinato ripercussioni economiche drammatiche, ma è solo un “primo passo” nella costruzione di un nuovo sistema di relazioni fra l’economia europea e quella della Gran Bretagna, ormai Paese terzo a tutti gli effetti, con conseguenze sulla libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali. Secondo Cia, pertanto, “occorrerà una stretta sorveglianza sul cosiddetto level playing field” (la parità di condizioni sulla concorrenza), per fare in modo che Londra possa sì discostarsi dalla regolamentazione europea, ma senza il rischio di una concorrenza sleale alle aziende europee in merito agli aiuti di Stato e alle normative in campo fitosanitario e ambientale.
Ma non basta. Preoccupa molto gli agricoltori italiani l’arrivo di dazi e ostacoli amministrativi e doganali alle esportazioni Made in Italy che nell’agroalimentare nei primi sei mesi del 2020 sono aumentate di quasi il 4%. Coldiretti chiede poi alle istituzioni italiane e comunitarie di assicurare la tutela giuridica dei prodotti a indicazioni geografica e di qualità (Dop/Igp) che incidono per circa il 30% sul totale dell’export agroalimentare Made in Italy e che, senza protezione europea, rischiavano di subire la concorrenza sleale dei prodotti di imitazione da Paesi extracomunitari.
“Dobbiamo rafforzare le iniziative promozionali a favore dei nostri prodotti sul mercato del Regno Unito – conclude Giansanti di Confagricoltura – e trovare nuovi canali di sbocco per il Made in Italy agroalimentare. Chiediamo al nostro governo di avviare rapidamente una riflessione sulle proposte, presentate ieri dalla Commissione Ue, per la ripartizione tra gli Stati membri della riserva di 5 miliardi di euro decisa dal Consiglio europeo, allo scopo di limitare l’impatto economico del recesso del Regno Unito”.
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