Gli Usa e le conseguenze dei dazi
Al bullismo e agli insulti di Trump, la Cina risponde con fermezza e rifila un siluro a The Donald
Dopo rilanci e insulti il Dragone non ha alcuna voglia di scherzare e ribatte al sarcasmo della Casa Bianca: «Chi ha legato la campana deve slegarla»

Quello tra Washington e Pechino è un gioco tra un bullo e un duro. Mentre Trump sarà domani, giustamente, a Roma per i funerali di papa Francesco, la Cina non perde un secondo per punire appunto il suo bullismo. Non bastano infatti le parole concilianti del Segretario al Tesoro Bessent per placare gli spiriti. Come del resto suonano sarcastiche le promesse dello stesso Trump, per cui «giocherà in modo carino con Xi Jinping». Dopo il lancio e il rilancio delle scorse settimane – 145% Usa, 125% Cina, di fatto un embargo reciproco – e gli insulti, il Dragone non ha alcuna voglia di scherzare. Ai compromessi aleatori ed eventuali trattative degli Usa, ha risposto il portavoce del ministero del Commercio cinese, He Yadong: «chi ha legato la campana deve slegarla».
Curioso sarebbe quindi entrare nella testa di Trump e capire se ammetta, almeno a se stesso, che la Cina gli ha rifilato un siluro.
Dopo la finanza, con i suoi 5.700 miliardi bruciati in poche settimane, arriva il conto dell’economia reale. Molto più legato al gigante asiatico. La reazione della Casa Bianca alle pressioni di auto, digital e retail è stata tardiva. La proposta di un disgelo, riducendo i dazi sui prodotti non strategici, non ha raccolto la reazione auspicata. I cinesi negano che ci sia stata una qualche iniziativa di negoziati da Washington. Per quanto confuciani siano – quindi poco avvezzi al senso di colpa – pretendono che gli emissari di Trump, o forse lui in prima persona, si presentino alla porta della Città Proibita dicendo: “Sorry! We made a mistake”.
Negli States, due sono i settori da guardare: trasporti marittimi e retail. Secondo il Tesoro, le prenotazioni marittime delle spedizioni container dalla Cina sono crollate del 64% nelle ultime due settimane. Nella visione ideologica del Maga, c’è chi potrebbe festeggiare. Ma la rilevazione è dopata. Prima del Liberation day, si era registrata una corsa al container proprio per anticipare le tariffe. Nella prima settimana di aprile, il porto di Los Angeles, per esempio, aveva registrato un aumento degli attracchi di cargo cinesi, del 57% rispetto allo stesso periodo dell’anno prima e del 6% sulla settimana precedente. Arriva Trump con il suo cartello e si ha un calo del 28% sulla settimana precedente all’annuncio e del 9% sul 2024. Ora, per coprire la tratta Shanghai–Los Angeles, ci vogliono dai 13 ai 20 giorni.
È evidente che i cargo si siano attrezzati in vista dell’annuncio di Trump, per arrivare negli Usa con più merce possibile scoperta dai dazi. D’altra parte, gli spedizionieri sono tra quelli che meno si sono stracciati le vesti contro il regime tariffario. Maersk ha espresso preoccupazione, Msc non si è esposta, Cosco – peraltro di bandiera cinese – ha valutato l’espansione della flotta. Il fatto è che, a noli daziati, gli spedizionieri fanno mark-up. Innescano così quella spirale inflattiva che Washington nega. E su cui invece Pechino intende scommettere. E poi c’è il retail. È dalla metà di marzo che gli uomini di Home Depot, Target e Walmart facevano anticamera alla Casa Bianca. Trump li ha accolti solo dopo il crollo di Wall Street. Il problema, per ora, è per i prodotti non food. Se dovesse cominciare a singhiozzare anche la catena di fornitura dell’alimentare, i prezzi salirebbero per tutta la Gdo.
A costi elevati per il consumatore, scaffali vuoti e business a rilento, le aziende non si farebbero scrupolo dal mandare a casa i dipendenti. Tax Foundation, think tank conservatore e liberista – quindi non un amico di Bernie Sanders, per capirci – stima quasi 300mila posti di lavoro andati perduti a causa dei dazi. Goldman Sachs arriva a 400mila. «Fmi e World Bank dedicano troppo tempo ai temi sociali. Devono tornare a occuparsi di stabilità finanziaria» diceva ieri Bessent agli incontri di primavera proprio del Fondo monetario a Washington. “Gli shock negativi significativi”, così valutati in una nota dell’Fmi, dovuti appunto ai dazi e allo scontro Usa-Cina, sono proprio quello che la finanza mondiale sta cercando di contenere.
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