«Il tema dei migranti è un banco di prova. Se cedi sui migranti, cedi su tutto. In particolare sull’Europa. L’immigrazione è anche nel nostro interesse. Molte delle nostre regioni hanno bisogno di essere reindustrializzate, altre devono far fronte alla desertificazione, altre ancora soffrono di una carenza di servizi pubblici. Non bisogna dimenticare che la popolazione francese è molto poco globalizzata. Abbiamo soltanto due città globali in Francia: Lione e Parigi». È un recente pensiero di Alain Touraine, il grande sociologo scomparso alla bella età di 97 anni: uno dei massimi intellettuali francesi della seconda metà del Novecento, e non è definizione da poco.

Touraine lavorò moltissimo, e infatti la sua produzione è enorme, ma tentando di coglierne alcuni punti forti e rileggendo le parole con cui abbiamo iniziato questo articolo diremmo che l’illuminista Touraine alla triade libertà- uguaglianza-fraternità sentisse l’ansia di aggiungere la parola “dignità” che nel nostro tempo (si pensi appunto all’immigrazione, ma non solo) è tornata effettivamente ad assumere, come nei secoli bui, una meta incerta: «Non saremo mai in un mondo normale – scrisse – finché otto persone su dieci non sono uguali». Qui c’è tutta l’acutezza di un uomo che aveva trascorso la vita indagando i meccanismi della società industriale e poi post-industriale e che era giunto a questa conclusione: cercare i nuovi soggetti in grado di coniugare la soggettività (i diritti) con la complessità del mondo post-industriale, lo stesso rovello su cui si cimentano ormai almeno da 25 anni i filosofi e gli intellettuali più avanzati, da Sen a Beck a Giddens, per fare solo tre nomi.

Il problema dell’analisi sociologica è in fondo quella della Politica con la “p” maiuscola è cioè quello che Touraine si poneva fin dal 1992 in “Critica della modernità”: cercare le condizioni per una democrazia che non sia più solo formale. Nel senso che la modernità deve essere il risultato delle complementarietà tra l’attività della ragione e la liberazione del soggetto. Partendo dunque dalla critica della società industriale (qui c’entra la Scuola di Francoforte), Touraine ha tentato di cogliere il momento del superamento della vecchia società industriale, e dunque l’aria positiva della prima globalizzazione, riconducendolo al cospetto di una politica riformatrice: e furono gli anni del maggiore impegno del sociologo con i socialisti mitterrandiani e post mitterrandiani (Michel Rocard), esperienza poi conclusasi quasi contemporaneamente alla crisi degli anni Duemila.

È da qui che parte lo sfarinamento della società post-industriale e della stessa idea della Stato-Nazione e contemporaneamente si fa strada l’illusione del governo mondiale. La sfida diventa allora quella della ricerca di attori sociali in grado di preservare l’essenza dell’idea democratica perché questo è l’unico luogo storico e filosofico in cui sono possibili tutte le relazioni, le sinergie e le mediazioni tra individuo, collettività e potere istituzionalizzato ma questa si rivelerà una ricerca incompiuta per una ragione fondamentale: l’insufficienza, se non l’assenza, di movimenti culturali in grado di riattivare la «circolazione sanguigna» e il «sistema nervoso» delle nostre democrazie. Di qui, il pessimismo dell’ultimo Touraine che vede il fallimento delle élite politiche mondiali incapaci di governare il problema dei diritti e delle libertà e da noi di costituzionalizzare l’idea di Europa.

Insomma, l’idea illuminista e kantiana che nel nuovo millennio alza bandiera bianca. È addirittura la «decomposizione» – afferma nel 2010 – di tutto un sistema istituzionale e sociale. Ancora una volta la sociologia diventa “sociologia della crisi”. Qui emerge la difficoltà della politica, non solo dei “movimenti culturali”, che certo ne dovrebbero essere il propellente: si crea così quel cortocircuito tra politica e tecnica, “weberianamente”, che sta contraddistinguendo i nostri sistemi democratici, un cortocircuito che non deriva dal conflitto ma dal suo contrario: la separatezza del loro ruolo dai canali nevralgici della democrazia che sono o dovrebbero essere i partiti politici, i sindacati, persino i mass media.

Mario Lavìa

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